Ognuno di noi ha un proprio storytelling, più o meno compiuto. C'è un inizio, un mentre e una fine a stabilire un filo logico tra eventi all'apparenza caotici, che si susseguono e spesso si determinano per contagio.

Ma che succede se all'inizio di questa catena più o meno arbitraria, se all'origine di quella storia che è la nostra vita, c'è un enorme buco? Come se nella stesura della propria biografia, l'incipit fosse stato  di colpo cancellato? Succede che ne saremo condizionati per tutti i giorni a venire, finché non riempiremo quello spazio bianco e chiuderemo il cerchio. E' il Senso (la maiuscola è d'obbligo) dell'operazione portata avanti da Enrico Maria Artale (Il terzo tempo) con Saro. Pensato come un vero e proprio diario di viaggio - da Roma alla Sicilia, alla ricerca delle proprie radici - è il tentativo privatissimo e rischiosissimo di ricucire un abito identitario strappato, aggiungendo il pezzo mancante, l'incontro con un padre che il regista non ha mai conosciuto. Perché, suggerisce Artale, solo ritrovando Saro (il nome del genitore) io Sarò di nuovo.

Passato e futuro si avvicinano fino al punto da non distinguersi più, mentre il presente - quello che vediamo nel momento in cui lo vediamo - è come se si appartasse, ritirandosi altrove. D'altra parte il qui e ora mostrato dalle immagini è già un dopo nel destino del racconto, vuoi perché l'esperienza di fruizione è sempre posticipata rispetto a ciò che si fruisce, vuoi perché il documentario ha avuto una gestazione lunghissima, con le riprese che risalgono al 2009, sono state messe da parte, poi ri-prese, mesciate, riorganizzate.

Saro si pone dunque come riflessione sul Tempo, un esperimento di verifica sul potere del cinema come Senso e come dispositivo di autenticazione ontologica. Non a caso Artale mette in esergo al film una citazione di Kiarostami, il maestro che più di ogni altro ha creduto fino in fondo nelle possibilità agnitive della macchina da presa. Una fiducia che il giovane regista italiano traduce nella maniera più immediata possibile, ovvero cucendosi praticamente una piccola cinepresa digitale addosso, una sorta di terzo occhio capace di dare agli eventi una giusta prospettiva, di in-quadrarli con chiarezza, senza quelle distorsioni ottiche di chi guarda "da dentro" le cose, troppo coinvolto perché le possa tenere a distanza.

Eppure in questa stessa opportunità c'è anche un rischio, che quel terzo occhio si comporti come un filtro ulteriore, un infido manipolatore, come sembrerebbe in effetti accadere nel momento in cui Artale decide di riprendere tutta la scena dell'incontro con il padre. Lì accade qualcosa di imprevisto, solo parzialmente camuffato dall'autentica imbarazzo tra i due: l'insorgenza di una punta d'artificio, le maglie del dispositivo che imbrigliano e sembrano puntare l'indice contro la nuda realtà suggerendole di coprirsi. A ricordo del peccato originale del cinema.

Un ricordo che sembra non appartenere all'autore. Sbiadito sotto la più potente luce di un tempo finalmente "ripreso", intimamente riconciliato e ormai solo rivolto al futuro.