Le radici affondano troppo in profondità per essere estirpate. Si può scappare, cercare l’oblio e cambiare la propria identità, ma quello della terra natia è un richiamo che non si può ignorare. Urla nel silenzio. Le antiche tradizioni non ci abbandonano mai e continuano a bussare alla porta, anche nella tempesta.

Sámi Blood è un cinema che si interroga sul passato, per trovare una risposta ai dubbi del presente. Si apre con un funerale, con una famiglia che si riunisce, ma Catherine si oppone al dolore: la vecchiaia l’ha resa una donna forte, che non vuole tornare indietro. Il flashback dà il via al romanzo di formazione, e si ritorna negli anni Trenta, in una comunità di lapponi che vive ai margini della società. Una quattordicenne rifiuta le imposizioni della famiglia e vuole scoprire il mondo, si ribella per non dover badare a una renna tutti i giorni e consumare così la sua esistenza.

 

Sullo sfondo la selvaggia Svezia, le foreste sterminate; in primo piano il razzismo di chi non sopporta i lapponi, lo sguardo di superiorità di chi è nato alto, biondo e con gli occhi azzurri. In una sequenza sconvolgente, un medico costringe la giovane protagonista a spogliarsi, per studiarla in nome della scienza, per capire quanto misura il cranio o il seno di una piccola lappone. Sámi Blood accompagna gli spettatori in luoghi estremi e la nostalgia dei tempi passati, seppure difficili, prende il sopravvento. “Giovinezza” significa sfidare l’impossibile per scoprire il paradiso, o l’inferno, oltre il sentiero di casa.

Catherine abbatte le barriere e riesce ancora a provare stupore nel quotidiano, perché la vita, nonostante tutto, è degna di essere vissuta. La regia sobria di Amanda Kernell aumenta la potenza di una storia struggente, che non può essere ignorata. La macchina da presa non invade lo spazio personale di Catherine, ma con umiltà si limita a seguirla, per ribadire una grande verità: la maschera del falso perbenismo non cade tanto facilmente, chi non si omologa è un faro nella notte.