L'insostenibile insensatezza dell'uomo (bianco) è, ça va sans dire, il cuore del nuovo lavoro di Ulrich Seidl.

Un doc che ricollegandosi direttamente al precedente Im Keller, e senza tradire il riconoscibilissimo stile del regista austriaco, rivela uno sguardo più responsabile e meno dissacratorio. Nel mirino l'hobby della caccia in Africa, dove ricchi e viziati europei si offrono all’obiettivo definendosi orgogliosi paladini dell’arte venatoria e benefattori dell’economia locale. La macchina da presa, invece, li mostra per ciò che sono davvero: simbolo di un occidente animato da un istinto coloniale (e autodistruttivo) mai sopito.

Più che sulla bidimensionalità del quadro, tipica in Seidl e cornice di tutta l'inesorabile piattezza del genere umano, è la negazione del primo piano e della soggettiva come elementi di identificazione a rivelare l'intenzione morale che sottende il progetto mentre, di contro, la scala dei piani varia e la distanza si accorcia quando la mdp incrocia lo sguardo esanime ma assai più espressivo degli animali cacciati.

Convince meno perché vagamente superfluo l'accostamento della popolazione di colore agli animali impagliati. Efficace ma duro da digerire invece il "cut" che ci mostra in successione lo scorticamento, la carne che avanza e che nutre la popolazione di colore, gli animali imbalsamati nel ranch dell'uomo bianco.

C'è chi uccide per piacere e chi per bisogno. La piramide sociale umana, e il senso del film, è tutto in questo cut.