Rimini ha inevitabili sfumature felliniane. Riporta a I vitelloni, al mare che si increspa, ai pomeriggi passati nell’ozio. Rimini è Rimini Rimini di Sergio Corbucci, sospesa tra amori, tradimenti e seduzione. Rimini è la cornice del tormento di La prima notte di quiete di Valerio Zurlini. Il fascino della città sulla riviera romagnola è senza tempo, specialmente per il cinema. A tornarci, a omaggiarla, questa volta è il cineasta austriaco Ulrich Seidl. Con Rimini, appunto.

Costruisce il contraltare del suo Canicola, del 2001. Vent’anni fa raccontava di un’afa senza pari, di un caldo insostenibile. Qui invece Rimini si fa plumbea, desaturata, un luogo dove i colori spenti si specchiano nello stato d’animo del protagonista. È la cronaca di una solitudine irrisolta. Nel suo vagare senza meta, il cantante fallito Richie Bravo è un fantasma. Trova ristoro nell’alcool, fa il gigolò per signore attempate, inseguito da una figlia dimenticata che vuole i suoi soldi. Non è un eroe, è un perdente.

Rimini come ritratto di un fallimento. Le inquadrature e le situazioni ripetute parlano di una realtà abitudinaria, da cui non è possibile fuggire. Le lunghe passeggiate di Richie potrebbero ricordare quelle di Alain Delon nel bel film di Zurlini, con quel soprabito senza tempo che qualche mese dopo avrebbe indossato anche Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi. Richie Bravo raccoglie la loro eredità. Ne è la copia decolorata, dilaniata. Anche l’atto sessuale perde la sua carica erotica. È solo la fotografia di un’umanità allo sbaraglio, che cerca conforto nel fingere di amarsi, nel simulare una passione che non c’è.

L’essere umano, per Seidl, è cinico, alla deriva. Non esiste salvezza. Si sentono gli echi del suo In the Basement e di Safari. La borghesia è presa di mira, ridicolizzata. La cifra stilista a volte ricorda quella del documentario, a cui il cineasta resta sempre molto legato, soprattutto nell’utilizzare la macchina a mano. Elemento cardine della sua carriera è stata la trilogia sulle virtù teologali: fede, speranza e carità. Per analizzarle aveva girato Paradise: Love, Paradise: Faith e Paradise: Hope. Erano tre storie selvagge, di frattura, dove il lieto fine sembrava non essere ammesso. Quello sguardo disincantato ritorna in Rimini, un falso paradiso. L’amore è un’emozione dimenticata, la fede non la si può contemplare, la speranza è una favoletta, per non parlare della carità.

La chiave di lettura è nel personaggio del padre di Richie Bravo. Ormai anziano, in una casa di riposo, vaga con il girello per i corridoi vuoti. Si sente in trappola, urla, vorrebbe distruggere le porte che non gli permettono di evadere. Rappresenta il punto di arrivo, il destino a cui non si può sfuggire. L’unico sollievo è nel ricordo, nell’estremo richiamo a una madre morta anni prima. “Mamma, dove sei?”, dice piangendo. Silenzio. Rimini è un film di domande senza risposte, che vuole scuotere gli animi assuefatti al dolore. La “sveglia” è nelle lunghe sequenze che immortalano Bravo mentre canta. È quello il suo paradiso perduto, il sogno di un’esistenza che non si è mai concretizzata, l’istantanea sbiadita di quello che sarebbe potuto essere e che non accadrà mai. Presentato in concorso all’ultima edizione della Berlinale, distribuisce Wanted Cinema.