Con Reality Matteo Garrone conferma di essere, tra i grandi registi italiani, il più necessario.

Non è una faccenda di stile. Ne ha indubbiamente da vendere, ma non mercanteggia. La tecnica di Garrone non cerca approvazione, ma vive in simbiosi con il racconto. Lo genera e ne è generata. Perciò cambia ogni volta. L'Imbalsamatore era un vulcano dentro una pentola. Un ribollio di carne, vizi e passioni che divampavano e premevano: dal sottobosco alla superficie. Primo amore era ugualmente mostruoso, ma al rovescio: affetti dalla stessa bramosia, l'occhio del cinema e il cuore del protagonista ghermivano come vampiri il proprio oggetto del desiderio fino a prosciugarlo. Gomorra (ci) sprofondava nel termitaio della camorra eludendo ottica e racconto: del resto c'è un punto di vista di fronte all'insensato impasto di corpi e affari, sopraffazione e violenza?

Cinema che non ammette nessuna smania estetica né imperativo morale. Cinema necessario perché depurato. Sciolto da abitudini, miopie e ingiunzioni di sguardo. I suoi occhi non calano dall'alto, come rapaci sul mondo. Ma s'infettano con ciò che guardano. Lo sa bene il protagonista di Reality, Luciano (l'ergastolano Aniello Arena, bravissimo), che per troppa televisione non riesce più a distinguere il vero. Affetto “dalla sindrome del Grande Fratello”, questo pescivendolo mariolo che pare uscito da una commedia di Eduardo, si perde annullandosi nel sogno di entrare nella Casa del GF.

Sbagliato prenderlo per un film di denuncia. Garrone costruisce un altro dei suoi universi-chiusi. Impossibile tanto ai protagonisti quanto agli spettatori venirne fuori, discernere. Un acquario nel quale i personaggi galleggiano come pesci, in trance. Il falso è così incistato nell'orizzonte degli eventi da non poter essere più smascherato.

La società dello spettacolo di Debord - evocato dal bianco a tutto schermo dell'incipit - si è evoluta a spettacolo della società. Come una seconda pelle cresciuta su quella della realtà. E allora carrozze stile Versailles sfilano per le strade come fuoriuscite da un museo delle cere; robot vengono smerciati come copie regredite dei più potenti macchinari per cucina; improbabili fenomeni da baraccone riempiono piazze semicircolari come anfiteatri. Divi della televisione e modelli di Botero e schiere di fedeli in processione che compiono riti ridotti a messa in scena. Falso anche il movimento: su e giù, giù e su. Uno Yo-yo esistenziale. Nessun avanzamento. E noi dentro, maschere tra le maschere. Perduti in quell'allucinato decalco da reality che è diventata la vita. Fluttuanti dentro enormi palle di vetro, sospinti da una vertigine senza caduta.

L'occhio fisso sul potente lucernario di uno studio televisivo, mentre intorno è solo effetto notte.