Riassumiamo il biopic di Taylor Hackford in tre concetti basilari: mimesi, sintesi, crasi. Mimesi. Ray Charles è Jamie Foxx, che vorrebbe rifarsi al Cassius Clay di Will Smith in Alì di Michael Mann (altro film, altra dimensione, altro cinema), rispetto a mimetizzazione attoriale, alla ricomposizione dei tic, alle movenze più classiche di mister Charles (si compari il classico autoabbraccio del pianista di colore), alla ricreazione di un tono sofferto e strascicato nel canto. Ed è fuor di dubbio: i risultati sono spaventosi, in positivo s'intende. Sintesi. Hackford opta per una tranche de vie (1949-1966) di Charles, semplificando in flashback saturi di polluzioni cromatiche i traumi infantili del piccolo Ray, origini e incubi ricorrenti che lo avrebbero portato a fare uso di eroina e tradire moglie e famiglia, sulla pelle delle sue giovani amanti. Per non parlare, poi, della fretta, dopo due ore abbondanti di pellicola, nel condensare in nemmeno quattro minuti il post '66 di Charles, zeppo di riconoscimenti socio-politici postumi e sibillini (e di una stanca e prosciugata vena creativa, anche se nessuno tra gli esperti lo rileva mai). Crasi. Ovvero fusione o squagliarsi di una sequenza sull'altra. Non ci sono mai buchi temporali e concettuali lasciati per riflettere, per respirare, per prendere fiato. Ogni fotogramma in Ray si collega continuamente a quello che verrà dopo (o a quello che è venuto prima), in una pedagogica e manichea way of life da seguire nella realtà come nella finzione, senza un barlume di libertà interpretativa. Per fortuna che un bel po' di spazio lo si dà alla musica, e ci mancherebbe: Mess Around, I got a Woman, Hallelujah I love her so, The Right Time, fino a una traccia creata apposta per l'occasione, con l'improvvisazione live di What'd I say: questa sì vale l'intero prezzo del biglietto.