Amato e atteso, in Francia, da un piccolo esercito di fan, da noi Arnaud Desplechin è arrivato solo con I re e le regine, tragicommedia toccante ma vista da pochi. Come quel film, Racconto di Natale è un'altra fotografia di un gruppo familiare, dei suoi conflitti, dei suoi disordini affettivi e sentimentali, che il regista declina in un tono sospeso tra la favola nera e il mito. Junon (Catherine Deneuve, valorizzata in tutta la sua geniale freddezza), come la regina degli dei, si chiama infatti la matriarca che regna, indifferente, sulla microsocietà rappresentata da una famiglia d'intellettuali di Roubaix. L'albero di Natale è il totem intorno a cui si riuniscono principi e principesse dispersi: la figlia scrittrice Elizabeth, l'ultimogenito Ivan e Henri, il figlio ripudiato e bandito dal regno. Molti anni prima esisteva un altro principe, Joseph, sofferente di una rara malattia genetica; Henri fu concepito come farmaco, per donare midollo osseo al favorito; ma risultò incompatibile. Joseph è morto, però la sua maledizione continua a gravare sui congiunti: ora è Junon ad essere malata e il figlio mal amato potrebbe salvarla. Nel mettere in scena la famiglia Vuillard, dispersa, mitica e banale allo stesso tempo, Desplechin moltiplica i punti di vista e spezza la linearità del racconto, concedendoci le rivelazioni un poco alla volta, con parsimonia. Senza colpi di scena, però: ciò che si apprende gradualmente è atteso, previsto e in ciò sta la forza del film, che permette così allo spettatore di concentrarsi sui numerosi personaggi. Eppure stenteremmo a definire la sua un'opera "corale", genere di moda che sempre più spesso si accontenta dell'ovvio. Se vogliamo trovare delle referenze a questo film dal titolo – ironicamente – dickensiano, le cercheremo piuttosto in Bergman (ma con più cattiveria e più ironia) o, come rilevato da alcuni al Festival di Cannes, in Paul Thomas Anderson (per la capacità di scavare in ogni "carattere") o nel Wes Anderson dei Tenenbaum (per lo humour melanconico misto a lampi di allegria). Il regista sta col fiato sul collo dello spettatore, lo obbliga a specchiarsi nello schermo guardando in faccia l'ipocrisia delle relazioni familiari; tanto che il film richiede uno sforzo di adattamento all'atmosfera che vi si respira, prima di sintonizzarsi con i gesti, gli sguardi, le motivazioni di ciascuno. Qualcosa può perfino spaventare: l'ambiguità dei legami familiari, la crudeltà nei confronti dell'elemento ribelle; o la scena in cui Junon traduce in equazione aritmetica le sue speranze di vita. Però – e questo è sorprendente – i conflitti tendono a comporsi gradatamente in una serenità inaspettata, una voglia di vita ostinata che non ha bisogno di ricorrere all'espediente dell'ottimismo. Lasciandoti contento di aver affrontato la prova e dimostrandoti, ancora una volta, che le "favole cattive" svolgono una funzione catartica. Attento a non sacrificare nessuno dei suoi personaggi, il regista coordina il cast ottenendone il meglio. Con una nota di merito per Mathieu Amalric, banale supercattivo nell'ultimo 007 e qui, invece, folletto spiritato e maledetto, un "gollum" di famiglia borghese torturato e geniale.