Sarebbe ingeneroso accusare di pigrizia la nostra serialità, certo è che difficilmente vedremo mai una storia dedicata alla signora Maura Livoli. Forse qualcuno l’ha già scritta, chi lo sa, magari si è imbattuto in un produttore che non vedeva potenzialità nel pitch ed è finita lì. Nel 1990, la signora Livoli partecipò a Telemike e fu colta in flagrante da Bongiorno con dei fogliettini pieni di appunti. Prontamente squalificata, dopo i saluti finali ebbe un mancamento, suscitando lo sdegno di Mike (il video è reperibile online ed è piuttosto divertente quanto imbarazzante). Successivamente denunciò il presentatore e gli autori per le accuse di truffa, ma tutto cadde in prescrizione.

Un piccolo episodio, nemmeno tra i più importanti della tv italiana, ma talmente sospeso tra farsa e melodramma da illustrare bene bizzarrie e contraddizioni del carattere italiano. In un paese come il nostro che si esalta di fronte ai conflitti e coltiva la suprema arte dell’invidia, di rado il tifo s’incanala a sostegno dell’impresa di un singolo (a meno che non rappresenti un’intera nazione, per esempio le Olimpiadi). Perciò facciamo fatica a ricordare i vincitori dei quiz televisivi, a parte qualche figura mitologica degli albori (i personaggi di Lascia o raddoppia?) o i freak della tv commerciale (dall’Uomo Gatto in su).

Diverso è il discorso sul fronte americano, che attorno alla televisione ha costruito racconti straordinari (Quinto potere, Dentro la notizia, 30 Rock, The Newsroom) senza dimenticare Quiz Show di Robert Redford, rievocazione del celebre scandalo che, alla fine degli anni Cinquanta, svelò all’opinione pubblica che il popolare gioco a premi Twenty-One era truccato.

Di fronte a Quiz, miniserie in tre puntate tra le più seguite del 2020 in Gran Bretagna e ora disponibile in Italia (prima TIMvision, il 29 agosto in prima serata su Rai Uno), viene da pensare che il genere del game show interessi generalmente soprattutto come dispositivo per raccontare il meccanismo dell’imbroglio, la costruzione della truffa, lo svelamento dell’illusione, la dialettica tra la realtà e messinscena.

Quiz
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Se il film di Redford si concentrava sulla perdita dell’innocenza di un’intera nazione, scandagliando temi molto americani come il culto della celebrità, il potere dei mass media, il razzismo, la miniserie diretta da Stephen Frears sceglie di raccontare l’anima di un popolo approfondendo un caso clamoroso che ha travolto l’opinione pubblica inglese.

Quiz ripercorre la storia di Charles Ingram, un ex maggiore dell’esercito che, il 9 e il 10 settembre 2001, partecipò a Chi vuol essere milionario?, trasmissione a cui avevano già preso parte la moglie Diana e il cognato Adrian senza arrivare all’ultima domanda: malgrado nella prima puntata il goffo militare fosse apparso impacciato e poco sveglio, nella seconda spiazzò tutti vincendo a sorpresa il montepremi finale. Insospettiti da alcune anomalie, i dirigenti e gli autori della rete esaminarono al volo la registrazione e si accorsero che, appena Ingram leggeva le opzioni, qualcuno presente in studio tossiva un attimo dopo la citazione della risposta corretta. Per compiere il piano, il maggiore si avvalse di due complici: la moglie, presente nel pubblico, e un altro concorrente, un professore di Cardiff. Annullata la vittoria, i tre furono condannati ma tuttora si professano innocenti.

Il caso, passato alla storia come “lo scandalo della tosse”, è sicuramente più serio e complicato rispetto a quello che coinvolse la nostra signora Livoli, ma è indubbio che abbia potuto contare su uno sguardo in grado di emanciparlo dall’aneddotica per collocarsi in un orizzonte ben più articolato. Dopotutto Quiz nasce da un play di James Graham, drammaturgo nemmeno quarantenne che sta rileggendo la storia contemporanea britannica tra teatro e audiovisivo: suoi i tv movie Coalition (sul passaggio dal governo di Gordon Brown a quello di David Cameron) e Brexit: The Uncivil War, le opere This House (sui negoziati parlamentari negli anni Settanta) e Monster Raving Loony (sul partito fondato dalla rockstar Screaming Lord Sutch) ma anche uno degli episodi più belli della terza stagione di The Crown (il sesto, dedicato al rapporto tra il giovane Carlo e la regina Elisabetta). In questo senso Quiz è il pezzo di un discorso più ampio, ennesima ricognizione di una nazione abituata a sublimarsi attraverso il teatro. Play, dopotutto, vuol dire “giocare” e “recitare”.

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Una miniserie in tre atti, con il primo che è forse il più interessante se non altro perché ricostruire in forma semi-documentaristica la genesi del format offre gli strumenti per capirne il successo: parliamo di una trasmissione che raggiunse vette di quasi venti milioni di spettatori e a suo modo Quiz è anche il racconto dell’inizio della fine di un certo modo di fruire la tv generalista.

Capace di intercettare un pubblico trasversale, il Milionario è l’ultimo dei grandi giochi: con pochi elementi riesce a montare una tensione spettacolare nel momento in cui il piccolo schermo è invaso dall’estetica e dai tempi dei reality, fondandosi su un meccanismo semplice (rispondere alle domande più disparate) che però stimola coinvolgimento, emulazione, empatia. Lo vediamo bene nel secondo episodio: la regia di Frears adotta ed esalta gli stilemi della regia televisiva, con un montaggio che alterna il campo del quiz con ciò che all’epoca restava fuori dallo schermo (le occhiate degli operatori quando sentono i sospetti colpi di tosse), il presentatore sovraesposto come e più del vero divo catodico (Michael Sheen, strepitoso nell’accentuare la maschera di Chris Tarrant) e il concorrente tagliato da luci che ne rivelano le zone d’ombre (l’ottimo Matthew Macfayden).

Che il Milionario abbia un suo potenziale spettacolare – e un fondo inquietante – se ne accorse perfino Danny Boyle, ma è proprio lo sguardo cinematografico di uno smaliziato picconatore come Frears a collocare la televisione in una posizione ancillare rispetto al potere di una narrazione incalzante, con Macfayden chiamato a dare spessore all’imbroglione ed allontanarlo dal rischio della macchietta e Sheen incaricato di sottolineare la bidimensionalità di un’immagine televisiva, ed entrambi a loro volta impegnati a dare una personale lettura del concetto di “impostore” (tema che affascina Frears da Eroe per caso a The Program).

Per il navigato regista, Quiz è un altro very english scandal – come il titolo della sua miniserie del 2018 con Hugh Grant e Ben Whishaw – che esplora le evoluzioni della società britannica, a maggior ragione considerando che il Milionario stesso riproduce una sorta di idealizzazione del carattere nazionale, una creazione sviluppata a partire da un tipico gioco da pub: “È un’invenzione britannica – dice uno degli autori – che unisce le nostre due passioni: bere e aver ragione”. Tolta l’inclinazione alcolica, resta l’altra passione, ma c’è anche il demone del gioco che si rivela attraverso la travolgente attitudine nazionale alla scommessa.

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La forza del primo episodio sta proprio nell’incrociare il progetto televisivo della macchina-quiz (studiare come giocano gli inglesi, anticiparne le mosse, costruire il parterre dei concorrenti, usare il potere del montaggio, vendere la possibilità di un sogno che possa coinvolgere e riguardare tutti) con quella che potremmo chiamare “l’ossessione della risposta” dei fratelli Adrian e Diana (incredibile il bagliore negli occhi di Mark Bonnar e Sian Clifford quando scatta un automatismo che somiglia a una tossicodipendenza: “Per te la felicità è solo un quiz”).

Ma la grandezza della miniserie risiede anche nel modo con cui riesce a giocare con lo spettatore, virando nel terzo episodio verso il courtdrama che, dopo il finto documentario e la ricostruzione della vittoria mendace, rappresenta un’altra delle forme di spettacolo messe in scena da Frears. Arrivando anche ad accoglierne un’altra, un apparente sconfinamento nell’onirico che è in realtà un tentativo da parte della fiction di riappropriarsi del boccino della narrazione: un sorprendente inserto musical simile a un numero di varietà.

E in questo episodio finale, tutto focalizzato sul processo, il tema è puramente cinematografico: il rapporto tra verità e menzogna. Fondamentale l’arringa dell’avvocato degli Ingram (straordinaria Helen McCrory) sui contraccolpi di quella “buffa opera ingegneristica” che è la memoria: “Quando ricordiamo qualcosa in realtà non ricordiamo il fatto originale ma ricordiamo l’ultima volta che ricordiamo. Cancelliamo la memoria e ne creiamo un’altra. Tutti i ricordi sono dunque per definizione una bugia: cambiano, noi li cambiamo. Non è un crimine: è la natura umana”. Un discorso decisivo per capire l’intera storia e che dialoga con la citazione apparsa all’inizio della miniserie: “Sappiamo tutti che l’arte non è verità. L’arte è una menzogna che ci fa rendere conto della verità”.

A Graham e Frears non interessa davvero sostenere l’innocenza o la colpevolezza dei protagonisti: seguendo la parabola del punto interrogativo che nella sigla si trasforma nel titolo, si chiedono piuttosto se sia un reato imbrogliare a un quiz televisivo. E soprattutto: che cos’è la televisione? È quella cosa che porta un giudice a chiedere a un testimone se conferma quanto ha appena detto con una sola, spiazzante domanda: “L’accendiamo?”.