Bel colpo di Controcampo Italiano, Quiproquo è il sesto lungometraggio e secondo documentario di Elisabetta Sgarbi, presente alla prima per il pubblico in Sala Grande con il cast artistico e tecnico (tra cui spicca un sorridente Franco Battiato, autore delle musiche). Accolta con un lungo applauso, la regista dedica il film a Ludovico Corrao, senatore della Repubblica tragicamente scomparso meno di un mese fa, promotore del progetto e autore della ricostruzione “avanguardistica” di Gibellina dopo il terremoto del Belice.
Da fuori, Quiproquo sembrerebbe una stanca querelle ai limiti dell'intellettualoide. Al contrario, sulla scia de Se hai una montagna di neve, tienila all'ombra, presentato l'anno scorso proprio a Venezia, Sgarbi costruisce assieme a Eugenio Lio un'affascinante intervista-riflessione sul concetto di avanguardia, esplorandone i possibili significati in un viaggio attraverso l'Italia. Così i dipinti di Giovanni Iudice, avanguardia artistica di immediato riconoscimento, si accostano senza soluzione di continuità ai polimeri dell'ingegner Mei e all'innovativa valvola cardiaca del chirurgo Alfieri. Artista poliedrica di una lunga esperienza cinematografica (è del 1999 il primo cortometraggio stringimi stringimi), Elisabetta Sgarbi dimostra un'estrema padronanza del mezzo, curando le immagini delle persone e delle opere che indaga con autentico amore e rispetto, trasparenti in ogni inquadratura. Il discorso sull'avanguardia trascende dunque il suo obiettivo immediato – risolvere il quiproquo, eliminare le ambiguità - e si allarga a ritrarre un intero Paese, tirando fuori senso e bellezza persino da una teoria di tubi da acquedotto. Per questo, perché racconta un'Italia che solitamente sfugge alle telecamere e aiuta a cancellarne un'immagine dilagante nel nostro cinema, da commedia nordcontrosud, c'è da ringraziarla. E da sperare che Quiproquo trovi spazio nelle sale e (pura fantascienza?) sulle reti televisive.