Un fantasma si aggira nel cinema italiano: la generazione di coloro che sono nati poco dopo la caduta del Muro di Berlino, cresciuti in un’epoca post-tutto, nativi digitali devastati dalla nostalgia analogica. La serialità – quella di Netflix in primis – si preoccupa di metterne in luce gli aspetti più problematici, esaltarne lo sguardo inclusivo, misurarne lo spettro emotivo in una società che non all’altezza dei loro sogni, lanciare volti e corpi pronti a narrarsi dentro un universo transmediale.

Ma il cinema che fa? Alcuni ottimi esempi (Manuel di Dario Albertini, Fiore di Claudio Giovannesi, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, Bangla di Phaim Bhuiyan) ma tutti focalizzati su racconti singolari e situazioni talvolta eccezionali, non sempre in grado di abbracciare un discorso più ampio e identificare nel particolare un orizzonte universale.

Con la sua opera prima, Quel che conta è il pensiero, Luca Zambianchi (classe 1992) propone un autoritratto malincomico che ha l’esplicita ambizione di essere affresco generazionale di quelli che le ricerche sociologiche chiamano millennials, non celando – anzi… – il primo Nanni Moretti come evidente nume tutelare.

Come succede anche nella musica dell’itpop o nella narrativa dei suoi coetanei, Zambianchi guarda al grande passato alle spalle per osservare il presente, dimostrando quanto la nostalgia di eventi mai vissuti direttamente ma solo esperiti attraverso i prodotti artistici sia caratteristica fondamentale di una generazione consapevole di avere davanti un futuro che promette molto meno rispetto a quel che offriva ai fratelli maggiori o ai genitori.

Senza la bussola del disincanto, ben indicata dal titolo peraltro, si capisce poco dell’ammasso di sogni e bisogni con cui convive il protagonista (lo stesso Zambianchi) che condivide un appartamento a Bologna (città che non fa nulla per emanciparsi dalla sua mitologia) con un altro studente. Mentre cercano un terzo coinquilino, rimanda esami, prepara uno spettacolo teatrale, perde tempo a presso alla burocrazia universitaria, pensa spesso alla ragazza con cui si è appena lasciato. Quando arriva una ragazza pronta a occupare la stanza sfitta, qualcosa cambia.

Commedia minima, che sembra quasi affiorare da un diario intimo, Quel che conta è il pensiero inanella una serie di scenette alla ricerca di una compattezza espressiva che corrisponda all’esigenza di un ordine interiore. Molto, forse anche troppo, focalizzato sull’autore e attore (ma anche sceneggiatore, produttore, direttore della fotografia, montatore), rischia l’onanismo (una certa cinefilia barricata in se stessa) e l’eccesso di citazionismo (Moretti è saccheggiato anche nelle battute, si veda l'incontro con la mamma), rimarca la teatralità per incanalare l’incertezza nella ricerca di un registro.

Però questo film super indipendente, realizzato con pochissimi soldi e molta volontà, nella sua perfino ostentata gracilità trova il desiderio di riconoscere il prossimo per riconoscersi, il suo sentimento malinconico, la sua possibilità di immaginare qualcosa oltre la paura.