Nella migliore delle ipotesi, Project X è uno di quei film con cui l'analisi di costume va a nozze e la critica a farsi benedire. I 50 milioni e passa di dollari incassati in patria gli sono valsi immediatamente il titolo di "cult generazionale" (espressione infida, dietro la quale si celano le peggiori porcate estetiche e le più felici intuizioni commerciali, non di rado appaiate).
La generazione in questione non è la X a cui farebbe pensare ma la Y, quella nata a cavallo tra gli anni novanta e duemila, cresciuta senza l'assillo paranoico dell'atomica sovietica, de-ideologizzata e antropologicamente adusa a processori e new media.
Anche le menti più brillanti del giornalismo sociologico converranno però che attribuire all'operazione un qualche valore empirico equivarrebbe a dimostrare la tossicità di un intero quartiere da una siringa rinvenuta per strada. Significherebbe ridurre un'intera generazione a un branco di dorky senza speranza, la cui massima aspirazione nella vita è partecipare a una "festa epica", con l'avvertenza che l'epica in questione è molto poco omerica. Meglio parlare di baccanale, orchestrato da un trio di perdenti senza rimedio, presi dalla brama di appartenere alla casta fica dei liceali-ultimo-anno e, quindi, decisi a trasformare una banalissima festicciola di compleanno in un rave-party nel giardino multi-accessoriato di casa. Metteteci ettolitri di alcol, quintali di "fumo" e feromoni in libera uscita; includete nani imbestialiti e yorkshire strafatti; considerate un esercito di ragazze pon-pon e lolite siliconate, giocatori di football e acneici con satiriasi; prevedete variegate emissioni gastrointestinali, nozioni di sessuologia primitiva, mappature anatomiche e sfide d'indicibile idiozia, e avrete un'idea abbastanza precisa di cosa voglia dire divertirsi-a-più-non-posso per questa gioventù neurotomizzata.
Si può tirare per la giacchetta Waters e il trash satirico, ma la scatologia qui è autoreferenziale, la ribellione autistica e l'approccio di fondo androcentrico e reazionario: non siamo più negli anni '80 e manca ormai una buona società contro cui scagliarsi, tanto che il padre del festeggiato è sorpreso, non deluso, dalla birichinata del figlio e i media incoroneranno l'evento.
Visivamente Project X somiglia a un POV: il punta di vista è endogeno, da guardone amatoriale (le riprese sono di un partecipante alla festa). L'amatoriale - un must da The Blair Witch Project in poi - è la classica furbata che permette di azzerare i costi di produzione con la scusa della verosimiglianza. Nulla da eccepire se non attivasse, tipo riflesso incondizionato, tutta la fuffa sottotestuale sull'estetica 2.0, la fine dell'Autore (la regia c'è, ma è come se non ci fosse: sic!) e le derive del narcisismo collettivo che tanto fa arrapare la critica più onanista. Vogliamo dirla tutta? Questo film non ha ambizioni destabilizzanti né mire apocalittiche e, se strizza l'occhio ai figli del tardo-capitalismo, lo fa senza mai preoccuparsi d'intercettarne lo sguardo a un livello più profondo e consapevole.
Nima Nourizadeh, all'esordio, è il prestanome di Todd Phillips (qui produttore) che, con Project X, conferma l'eccellente fiuto per gli affari. E volontà (diabolica?) di perseverare: a questa Notte da teenager presto ne seguirà una geriatrica (Last Vegas) con gli ormai irrecuperabili Douglas, De Niro e Walken. Come dire: dai ruggiti dei leoni al canto dei cigni. Ci avevi pensato Todd?