La grande intuizione di Post Mortem - ad oggi tra i migliori film in gara - è la scelta dell'obitorio come location. E il merito del cileno Pablo Larraìn (Tony Manero) la capacità di farne esplodere le metafore, in un movimento uguale e contrario a quello dell'anatomo-patologo: dall'interno all'esterno. Luogo simbolico, l'obitorio è dove il corpo dissezionato dei cadaveri figurativizza quello del paese, il Cile, alla vigilia del golpe militare del '73. Larraìn utilizza la cinepresa come un bisturi, scava dentro la nazione, scruta le sue viscere. Cosa vi trova? Una realtà indecifrabile (impossibile da ricomporre: la variazione continua dei piani e degli angoli finisce per dissolvere rapporti e geometrie di uno spazio unitario), dai colori opachi, i quartieri anonimi, gli sguardi altrove, l'ottuso enigma delle cose. Finestre, muri, tegami, sedie, finiscono in primo piano con gli uomini, la loro materialità li assimila.
Cosa tra le cose è anche Mario Cornejo - Larraìn ritrova l'Alfredo Castro protagonista di Tony Manero - dattilografo incaricato di trascrivere le relazioni delle autopsie realizzate dai medici forensi. Tra i cadaveri, è un morto vivente anche lui. Vita anonima, anaffettiva e impalpabile che lo rende il perfetto uomo che non c'è, una nullità che gli altri quasi non vedono. Larraìn invece non lo perde di vista un attimo, senza per questo svelarne l'enigma, trovarne un briciolo di profondità. Tutto è superficie in lui. Bandiera della maggioranza silenziosa cercherà riscossa prima nell'amore di una donna, Nancy, poi nella retorica dei militari che lo convincono della sua importanza. Non a torto: il film sembra suggerire - è questa la sua forza, la sua originalità politica - una stretta interrelazione tra la passività del personaggio e la deriva reazionaria del paese. L'abisso della soggettività genera lo sfascio dello stato. Con il cerchio che si chiude chirurgicamente quando i medici finiscono di ricucire il cadavere di Allende. Il corpo straziato, esposto, del vecchio statista è uno dei momenti più forti del film. L'altro lo segue subito dopo: nell'estenuante piano sequenza del finale, Mario - servendo fredda la sua vendetta - "mura" Nancy e l'amante dietro un cumulo di oggetti. E mentre la loro esistenza sprofonda sotto una montagna di cose, l'immagine progressivamente si occlude, otturata da tutto quel ciarpume ammassato. Vista e spazio di verità si restringono, cedono all'oblio. La storia, dei singoli e dello stato, tira dritto. E avanti si trascina, impunemente e senza memoria.