La stazione dei bus di New York che dà il titolo all’opera prima di Danielle Lessovitz è il principale centro di snodo su ruote di Manhattan, è la porta d’ingresso per chi sogna la Grande Mela e quella d’uscita per chi vuole fuggirne. Al peggio è anche la gabbia di chi non ha un altrove da visitare: sullo sfondo di questo significativo non-luogo la regista costruisce un racconto di identità di genere e consapevolezza sentimentale estremamente “sul pezzo”.

Il protagonista arriva a Manhattan per cercare la sorella e trova una nuova famiglia fatta di ballerini e ginnasti, drag Queen e omosessuali rinnegati dalle famiglie. Tra di loro c’è una ragazza, di cui s’innamora e che lo costringerà a riflettere su ciò che è e ciò che vuole dalla vita.

La regista, attiva nel campo del documentario e del cortometraggio e interessata ai diritti della comunità LGBT, realizza una storia d’amore e di accettazione sociale puntando soprattutto sugli ambienti e contesti.

Partendo dai bus, Port Authority sembra voler fare un viaggio nei bassifondi di una città e raccontare modi opposto di affrontare solitudine e degrado: da una parte il gruppo di “sgomberatori” e picchiatori che accolgono il protagonista (omofobi e razzisti, l’America di Trump, forse), dall’altro i ragazzi che scelgono l’arte e la musica come via di fuga (e qui invece siamo in zona Ryan Murphy soprattutto nelle connotazioni di genere).

 

Questa descrizione riesce bene a Lessovitz, vi traspare il suo interesse e la sua conoscenza e anche la capacità di trasmetterla: poi però c’è il resto, ovvero il racconto e i personaggi che appaiono al limite del didattico, superficiali, figlio del facile meccanismo tv.

Così il film si appiattisce e si spreca su una dinamica poco efficace che il magnetismo e la forza di un’attrice emergente come Leyna Bloom non riescono a ravvivare, a maggior ragione che l’occhio dello spettatore dovrebbe entrare in contatto con un personaggio come quello principale che appare mai responsabile di ciò che fa, vive o pensa, mai presente, mai vivo. È un errore cruciale che brucia le possibilità di una regista a cui va tenuto in conto la sensibilità descrittiva come atout da giocarsi meglio nella prossima mano.