Bosnia 1995. Mentre la guerra è appena arrivata alla conclusione, un gruppo di operatori umanitari si deve confrontare con un ostacolo imprevisto:  rimuovere il cadavere di un soldato dal fondo di un pozzo per evitare che contamini l’acqua del villaggio. L’operazione, di per sé lineare, diventa inaspettatamente complicata… Parlare di una guerra, descriverne fatti e azioni può essere semplice, permette di muoversi lungo il già detto e di limitarsi a ripetere la cronaca. Oppure si può andare a cogliere il momento incerto e inafferrabile delle ostilità appena concluse, quella terra di nessuno nella quale non ci sono più nemici da combattere ma tante diverse realtà che si confrontano, ciascuna con l’encomiabile obiettivo di pacificare e rimettere ordine nella vita civile.

Su questo segmento si muove Perfect Day, diretto da Fernando León de Aranoa, affermatosi a livello internazionale con I lunedì al sole (2002) con Javier Bardem, film di insolita asprezza espressiva e di tenace plasticità drammatica. La capacità di raccontare il già molte volte raccontato  (tanti i titoli sulla/e guerra/e nella ex Jugoslavia), di accostare un approccio insolito e originale, di restituire incertezze e spaesamenti mai artificiosi, è al centro di questa produzione anomala. Dentro la nazionalità spagnola e l’ambientazione in Bosnia si muovono infatti quattro protagonisti ben distinti tra loro: un americano (B/ Tim Robbins), un portoricano (Mambrù/Benicio del Toro), una ucraina (Katya/Olga Kurylenko), una francese (Sophie/Melanie Thierry). Inciampi e imprevisti li mettono uno contro l’altro, favoriscono rivelazioni e confessioni, fanno emergere contrasti, paure, timori, cinismo.

Sfumature caratteriali emergono nello scontro tra pubblico e privato, tra il dramma della guerra lontana e un amaro umorismo a cementare rinunce e rimpianti. Emerge  la capacità del regista di imprimere all’inquadratura quel senso di verità che spacca la finzione e fa vivere la storia come un documento non più replicabile.