Alain Cavalier racconta Alain Cavalier. Oppure: il film di Cavalier mette in scena il possibile film di Cavalier. E ancora: il film sul film che Cavalier vorrebbe girare è il film nel film che Cavalier ha girato.
Già a raccontarlo, Pater - in concorso - provoca vertigini. Un'idea, un saggio, un esperimento ambizioso che fonde e confonde realtà e finzione, testi e sottotesti, attori e personaggi. Sovrapposizioni multiple, raddoppiate, triplicate, in un'infinità di scatole cinesi che inabissano ogni possibile proposizione veritativa dall'arte e sull'arte della rappresentazione. La scommessa suona anche più ardita se si pensa alla confezione amatoriale - camere a mano, videocamere digitali, telecamere fisse, fino al massimo di tre presenti nella stessa inquadratura, oltre a tutti i codici e i segni d'interpunzione tipici di questo tipo di ripresa - voluta dal regista di Thérèse. Che all'inizio del film (?) incontra il suo attore-feticcio, Vincent Lindon, spiegandogli l'intenzione di realizzare per la prima volta un lavoro senza fronzoli né filtri, dove entrambi interpreteranno uomini di potere. In particolare il Presidente della Repubblica francese e il suo delfino.
Inizia così la recita che recita non è, meglio non sembra, in cui - senza soluzione di continuità né marche distintive - si scivola da un film all'altro, fino al film che li contiene entrambi (sorge un dubbio: è quello che stiamo vedendo?). Unici elementi di continuità - oltre al titolo - il momento del pasto e le chiacchiere in libertà sulla politica, la Francia, il cinema.Si vede che regista e attore si sono divertiti parecchio.
Non si capisce invece come abbiano potuto pensare che questo gioco cervellotico e snervante, presuntuoso e inutile, fosse capace di divertire lo spettatore. Pater mette in abisso anche lui.