La forza del teatro di Ascanio Celestini è senza dubbio la parola. Tutto nel suo spettacolo concorre a isolarla, farla vibrare: la povertà scenografica, la solitudine sul palco, la grancassa del silenzio in platea. La parola di Celestini volge il suo contenuto - reale o realistico che sia - in affabulazione. Controversi i giudizi: retorica, astrazione, sublimazione dell'arte. Con il documentario Parole sante - i misfatti di una grande compagnia telefonica denunciati da alcuni dei suoi dipendenti - l'artista romano tenta un'operazione a rischio: rendere immagine la parola, cinema il teatro. Cosa che avviene fino a un certo punto. Celestini si cala infatti nel cinema con le dovute cautele, limitandosi a piazzare la camera in faccia agli intervistati e lasciando che la parola stavolta non sia la sua ma quella zoppicante e autentica dei testimoni. Ne viene fuori un racconto corale che non riesce a smarcarsi del tutto da certo giornalismo televisivo, e forse non vuole. Illuminare il cono d'ombra di una dilagante emergenza sociale - quella del precariato - è l'unico imperativo che conta. Via orpelli e ricami da teatro allora, e proscenio agli "internati", come li chiama il regista, un popolo di lavoratori dai contratti "flessibili", pagati pochissimo, senza tutele, senza futuro. Celestini si tiene ai margini, ascolta, riassume, solo all'inizio e in coda si lancia in uno dei suoi numeri d'alta scuola. "Fa impressione chiamare i vivi con il nome dei morti e fa impressione pronunciare il nome di un morto e sentire un vivo che te risponde", recitava in Scemo di guerra e il calembour retorico riecheggia sinistro anche nel bellissimo monologo della goccia di Parole sante, come monito a non piegarsi, a non scambiare per ineluttabile una vergognosa condizione di sfruttamento. Non sarà cinema, d'accordo, però fa male, diamine se fa male...