Venti registi, diciassette episodi o cortometraggi, sullo sfondo Parigi. Film corale quello prodotto dalla Victoires International di Claudie Ossari (la produttrice di Jean-Pierre Jeunet) e di Emmanuel Benbihy. La capitale francese come culla dell'amore, come luogo materiale d'incontro per anime perdute, solitarie, distratte, timide e sentimentalmente tumultuose. Anche se Paris, je t'aime è una sorta di Arcimboldo della regia contemporanea: ci sono i fratelli Coen che di maniera si divertono più fra loro che con il pubblico raccontandoci le vicissitudini di un ignaro turista statunitense (Steve Buscemi) in attesa del metrò nel sotterraneo de Les Tuileries; c'è Wes Craven che sfoggia la sua ormai totale inconcludenza facendo girellare i suoi due protagonisti nel cimitero di Pere Lachaise (al che tutti a ridacchiare pensando si tremerà di paura, invece…) assieme al fantasma di Oscar Wilde; o Alfonso Cuaron, inutilmente virtuoso all'eccesso, unico piano sequenza con Nick Nolte e nipotino (che poteva essere girato anche a Lione o Bordeaux). Ma oltre a chi si è perso per strada, c'è anche chi il tema lo affronta egregiamente rimettendosi al singolo valore aggiunto che crea un collettivo di regia. Sylvain Chomet regala un sorriso stralunato tra due mimi e il loro bimbo piccolo piccolo con un'enorme cartella sulle spalle; Isabel Coixet offre il corrucciato Castellitto, anche stavolta impenitente Don Giovanni, improvvisamente rinsavito per via della moglie morente e infine la leggerezza di un autore contemporaneo davvero degno di nota: Alexander Payne. La protagonista del suo 14sieme arrondissment è una turista americana di mezza età, grassottella e sempliciotta, che non si fa mancare nessun lusso da americana gaudente in vacanza; unico problema: è disperatamente sola e sarà Parigi a ridarle un vero e speranzoso sorriso. Insomma alla fine l'eterogeneità della messa in scena riesce comunque a produrre un risultato decente.