In concorso nella sezione lungometraggi al festival di Torino, Elisabetta Sgarbi, sorella del critico d'arte Vittorio e direttrice editoriale della Bompiani, tenta l'approccio cinematografico dopo una serie di interessanti cortometraggi e a due anni di distanza dal suo primo esperimento nel lungo Belle di notte (2001). Diciamo subito che Notte senza fine è un film complesso e di forte impatto distanziante per lo spettatore. Macchina da presa fissa (seppur con qualche impercettibile movimento laterale), tre ipotetici set che fanno da sfondo buio e cupo, quattro monologhi affidati a Galatea Renzi, Toni Servillo in coppia con Laura Morante e Anna Bonaiuto, Notte senza fine è ricerca evocativa sulla parola e nelle recondite pieghe della recitazione, immersa in una dimensione molto più teatrale che cinematografica, dove l'immagine si posiziona in secondo piano e la concentrazione registica si sposta sul fermento e sull'esplosione letterale del testo. Tanto che ognuno dei tre spezzoni di film trae spunto rispettivamente da tre importanti autori letterari come: Amin Maalouf (L'amore lontano); Tahar Ben Jelloun (La fatalità della bellezza); Hanif Kureishi (Il buio). E se probabilmente la parte centrale (Tradimento) quella che rode di gelosia un Servillo cornuto e una Morante più fatalista che fatale, è tutta incentrata sulla finzione delle sensazioni nel sentimento amoroso, gli altri due episodi di Notte senza fine rischiano di essere l'uno, L'incesto, fin troppo elementare nella sua concezione allucinatoria di scissione dell'io a due voci; l'altro, il primo del film, Amore, esageratamente distante e impenetrabile proprio a livello emozionale. Cinema a suo modo freddo e sperimentale quello della Sgarbi, che ammicca a l'irrealizzabilità delle previsioni borgesiane, merita però un'occhiata soprattutto per l'uso atipico e cerebrale di quelle che oramai sono diventate le nuove icone del cinema italiano (Morante e Servillo su tutti) che hanno preso il posto della generazione d'oro che fu.