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No One Knows
About Persian Cats
Parli di cinema iraniano e sullo schermo ritrovi sempre qualche simbolismo o qualche allusione che ti permette di dire a nuora perché suocera intenda. Si chiama resistenza artistica, logico e poetico aggiramento della censura. Raccontare una storia senza sbattere direttamente sotto al muso del cerbero censore il disagio, il fastidio, il dolore che provoca il bavaglio ministeriale. Curioso che in No One Knows About Persian Cats ci sia proprio una sequenza dove Nader, uno dei tre ragazzi protagonisti del film, bizzarro mediatore per passaporti falsi, dvd, cd e materiale non consentito per legge, viene arrestato per il suo operato e interrogato dal magistrato inquisitore. Nader s'inchina all'autorità, chiede comicamente scusa, perfino di baciare la mano. Una volta allontanato dalla guardiola, in un frame simile nei modi ad alcune gag di riporto di Renato Pozzetto, butta lì una frase: "Li guardi da un altro punto di vista, da una prospettiva artistica". Perché il film di Bahman Ghobadi rappresenta senza troppe metafore l'oppressione della libertà di parola ed espressione oggi in Iran. Negar e la bella Ashkan, due ragazzi puliti e borghesi, appena usciti di prigione per reati d'opinione, vogliono fondare un gruppo musicale. Girano mezza Teheran, assieme a Nader, alla ricerca di componenti per formare la band e poi fuggire dall'Iran, destinazione Londra. Il girovagare è il pretesto che serve a Ghobadi per costruire la struttura di No One Knows…
Protagonisti diventano veri gruppi indie-rock che provano i loro pezzi in cantine insonorizzate o in qualche stalla dispersa nella campagna (con profondo fastidio delle mucche presenti). Le band suonano e declamano versi di ribellione in una forma che ricorda i video di mtv. Immagini che vedono intervallati brandelli di realismo documentario: sporchi e fetidi slum, la modernità del cemento infinito e l'arcaicità di una religione applicata. In mezzo, stritolati dalle autorità che non comprendono e quindi proibiscono, Nader, Negar e Ashkan: agnelli sacrificali e puri di un cosmo malato di cieca ortodossia. Ghobadi stilisticamente non inventa nulla, basta seguire la dinamica itinerante del trio. Il registro è dapprima comico, prettamente musicale, infine tragico. La voglia di cambiare e la "necessità di aria pura, di vedere posti nuovi" emergono da sole. Terrificante per immediatezza e cinismo la sequenza in cui Negar e Ashkan, in auto, vengono fermati da un poliziotto in moto. Il reato? Avere un animale impuro in braccio. Un cagnetto di pochi mesi. Non lo rivedranno più.