Prendete il plot di Karate Kid, riempitelo di teenager idioti, stendetelo sotto il sole della Florida e aggiungete l'autolesionismo di Fight Club: otterrete Never Back Down. Il protagonista – Sean Faris, un ibrido più alto di Tom Cruise e meno espressivo di Thomas degli Zero Assoluto – si chiama Jack Tyler come il "teorico della violenza" di Fincher, Tyler Durden; il suo percorso è quello intrapreso dal Ralph Macchio di Karate Kid, con la dottrina orientale rimpiazzata dalla brutale arte marziale mista, e la saggezza del piccolo maestro Miyagi dai metodi spiccioli e i muscoli del mastodontico Djimon Hounsou; le dinamiche relazionali sono invece da film collegiale: governano le chiappe sode e il disimpegno, le piscine e gli amici bolsi, gli steroidi e una rarefatta noosfera. La natura derivativa del film diretto da Jeff Wadlow è comunque il minore dei problemi. Con un riciclaggio così scellerato a saltare è la coerenza semantica (troppi nessi, nessun nesso), mentre l'etica del cinema sportivo (la palestra come scuola di vita) viene ridotta alle sue componenti macho e tribali, al punto da degenerare in un ambiguo bullismo di strada. Il messaggio? Picchiarsi è bello, sano, diverte e risolve i problemi.