Mentre il presidente iraniano Ahmadinejad nega l'Olocausto e chiede la cancellazione dello Stato ebraico dalle carte geografiche, Steven Spielberg esce nei cinema con una storia che fa rabbrividire. Soprattutto se a raccontare quel settembre nero del '72, con sguardo lucido e quasi imparziale, è l'uomo della Shoah, regista stimato negli ambienti più conservatori. Spielberg, che sapeva dove sarebbe andato a finire, non voleva farlo. Aveva rifiutato tre volte il soggetto. Ci sono voluti cinque anni e molte pressioni dalla sua amica e partner di produzione  Kathleen Kennedy per convincerlo. Munich - in uscita nelle sale italiane il 27 gennaio - è ispirato al libro Vengeance del canadese Gorge Jonas, ma lo sceneggiatore premio Pulitzer Tony Kushner ha riscritto tutta la trama (tu pensi alle parole, gli ha detto Spielberg, io alle immagini). Non ci sono eroi come in Schindler's List, alcune scene hanno l'impatto violento di Salvate il soldato Ryan. I fatti sono quelli del settembre 1972, quando a Monaco avvenne l'impensabile: l'inizio del terrorismo internazionale. In un luogo e in un tempo deputati alla festa, in pieno svolgimento dei giochi olimpici, un gruppo di giovani in abbigliamento sportivo si introduce negli alloggi israeliani. Sono terroristi palestinesi che prendono in ostaggio undici atleti e, falliti i tentativi di riscatto, li ammazzano tutti. Le immagini sono drammatiche, la televisione è già uno strumento potentissimo: sia i terroristi che le famiglie delle vittime seguono in diretta, minuto dopo minuto, le mosse della polizia tedesca e le morti dei loro cari. Si scatena l'inferno, sangue, fuoco, morte. La reazione di Israele non tarda ad arrivare. Nella casa di Gerusalemme, dove si tiene l'incontro segreto e decisivo con i generali e i responsabili dei servizi segreti, il primo ministro, la signora Golda Meir, dà il via al contrattacco, altrettanto violento, con una frase sibillina: "Oggi abbiamo scoperto che ogni civiltà deve negoziare i suoi più alti valori con molti compromessi". Tra i convocati c'è Avner (Eric Bana), burocrate del Mossad senza esperienza, figlio di un eroe di guerra ed ex body guard della Meir. Da Ginevra a Francoforte, da Roma a Parigi, Londra e persino Beirut (territorio proibito), Avner e il suo plotone si muovono dapprima tentennando poi con sempre maggiore sicurezza e sempre maggiore sete di vendetta. Per avere informazioni e contatti spendono cifre incredibili, il tramite è un giovane francese che appartiene a una famiglia indipendente da qualsiasi governo e nazione. Scoprono così che il terrorista più pericoloso, uno dei mandanti del massacro di Monaco è protetto anche dalla Cia, che lo paga perché abbia un occhio di riguardo nei confronti dei diplomatici anglosassoni. A un'ora e mezza dall'inizio Munich sembra parteggiare per gli israeliani, Avner e i suoi sono attentissimi a non fare vittime tra i civili, si pongono interrogativi morali tipo: chi stiamo davvero uccidendo? Sarà la fine del terrorismo? Poi tutto cambia. Popoli, nazionalità, ragioni, cause, effetti. Cadono i cliché. Più che un film per la pace, sembra una presa di coscienza drammatica, un'invocazione disperata...

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