Tanto per capirci, Bong Joon-Ho è stato regista campione d'incassi in Corea del Sud nel 2006 con l'horror The Host. Un ragazzo di quarant'anni che ha saputo parlare ad un pubblico vastissimo e che ha dato grosse soddisfazioni ai suoi produttori. Dal kolossal con mostro, Bong è passato a un film più minimale senza rinunciare a lasciare in primo piano un altro mostro. La mamma del giovane ritardato Do-Joon non ha nome. E' semplicemente "la mamma". Una sorta di archetipo narrativo che Bong riutilizza alla sua maniera, mettendo da parte paciose silhouette materne e imponendo al personaggio un'invidiabile pervicacia comportamentale. La matura signora, visti gli evidenti problemi relazionali e i pasticci amicali combinati dal figlio, è diventata tutt'uno con il ragazzo. Apprensiva, lo controlla dappertutto, lo osserva in ogni movimento. Nulla le sfugge, fino a quando Do-Joon non va a fare serata in un baretto, si ubriaca e molto probabilmente, sulla via del ritorno, uccide involontariamente una ragazza. Il ragazzo finisce in cella e per lui sembra esserci solo l'ergastolo. Allora la mamma cerca in ogni modo di trovare testimoni, un avvocato, addirittura prove concrete che possano scagionare il figlio. Raccontata così sembrerebbe una classica detection all'americana, modello impicciona signora in giallo. Invece la mamma di Bong Joon-Ho, interpretata da Kim Hye-Ja, che in Corea nella celebre serie Diary of Fields è da anni madre devota e generosa, diventa una figura esteriormente rinsecchita e fragile, quanto interiormente malvagia ed intraprendente. Nulla la ferma nel suo disegno che si forma di ora in ora. La mamma agisce d'istinto, in difesa aprioristica e totale del figlio. Sostituisce così l'affetto per il ragazzo in una sorta di gara di etica pubblica che la costringerà perfino ad ammazzare chi sa troppo. Bong non ci risparmia particolari cruenti e sanguinolenti, non elude il desiderio alla soliti sospetti di intravedere ogni dieci minuti un differente punto di vista sull'omicidio e lavora alacremente nel costruire un'icona al femminile per cui non si riesce totalmente a parteggiare, ma se ne comprendono pavlovianamente atti ed azioni. Un dubbio morale che ben s'istilla tra una fotografia slavata, un riferimento all'attualità e alla cronaca del paese (le battute dell'avvocato sui campionati mondiali di calcio), uno sfondo urbano ricercato e composito. Straordinaria la capacità di molto cinema coreano contemporaneo di rimanere in bilico su differenti registri (qui il comico, il drammatico, il giallo) senza mai intraprendere i tradizionali connotati di genere come da stanchi europei vorremmo sempre imporre al mondo cinematografico intero.