Nonostante la giovanissima età (25 anni) e una breve ma fulminante carriera, il cinema di Xavier Dolan possiede una sua coerenza incontestabile, data dal risvolto narrativo fortemente autobiografico e da un approccio stilistico assai marcato.

Non vuol dire che i suoi film siano tutti uguali – l'ultimo somiglia poco al precedente Tom à la ferme - ma che è possibile tracciare delle linee di convergenza, dei rimandi, talvolta degli incastri: in fondo tutti e cinque i lavori dell'enfant prodige canadese individuano nel conflitto tra singolarità e norma il proprio nodo gordiano. Che si tratti di una “devianza” comportamentale, di identità sessuale o di anomalia psicologica, il tema sullo sfondo resta la scissione tra i desiderata socio-culturali e le aspirazioni dell'individuo.

Il cinema di Dolan però non sta sulla dialettica, ma sposa principalmente il suo polo negativo, l'abnorme: è questo che rende così interessanti i suoi personaggi, provocatori i suoi film (in fondo la norma sta sempre dalla parte del pubblico) ed eccentrica la sua idea di messa in scena.

Così, se è vero che Mommy ha come referente diretto il film d'esordio J'ai tué ma mère (con il quale condivide il focus madre-figlio e l'impiego nel ruolo femminile di Ann Dorval), è vero altresì che un po' tutti i pregressi titoli esistono in funzione di quest'ultimo. Dolan l'ha definito la “vendetta della mamma”, dopo quella del figlio nel suo debutto alla regia. Diciamo che genitore ed erede non si risparmiano, né in amore né per sofferenze provocate. Stavolta il figlio (Antoine-Olivier Pilon) non è un ragazzo con problemi di orientamento sessuale, ma affetto da un disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Come spesso accade con i film su famiglie disfunzionali e soggetti borderline – anche la madre non è tutto questo campione di equilibrio, in più c'è una vicina con difficoltà logopediche (Suzanne Clément) - Mommy è un'opera fondamentalmente divertente, nella misura in cui le azioni e le reazioni dei personaggi, pur drammatiche, raggiungono un livello di parossismo tale da strappare una risata. Un risultato ottenuto grazie alla straordinaria chimica dei tre attori in scena, al copione pieno di battute folgoranti, di scivoloni linguistici e di parolacce colorate, e all'energia e al ritmo che Dolan sa infondere per larghi tratti al suo film.

Rispetto alle incursioni dada dei suoi primi lavori, questa è un'opera deliberatamente pop, in cui il piacere del raccontare e il modo esuberante di farlo si saldano in un intrattenimento con stile.

E se a volte dà l'impressione di essere più appariscente che profondo (pensiamo alle lunghe sequenze costruite come veri e propri videoclip musicali, in cui è la musica a dire più dell'immagine), più ruffiano che geniale (il formato 1:1 adottato per gran parte del film - significante del mondo chiuso dei personaggi – per due volte si aprirà simbolicamente al futuro e alla speranza diventando schermo panoramico), Dolan conferma di essere tra i talenti più genuini del panorama internazionale.

Se in futuro saprà contenere la smania di mostrarsi a favore della responsabilità di mostrare, il giovane talento diventerà anche un signor regista.