"Riscontro dovunque solo vili lusinghe, ingiustizia, interesse, scaltrezza, tradimento; non posso contenermi, mi adiro, e mi propongo di mandare all'inferno tutto il genere umano."
Ci voleva Molière per finire la commedia. Ed era necessaria la commedia, mestiere che al momento i francesi fanno meglio di ogni altro, per spegnerci il sorriso, quello peggiore, accomodante con le miserie umane. E allora due volte grazie a Molière in bicicletta, la commedia che cita la grande mentre finge di inseguire la piccola per poi prenderla a calci.
Il film di Philippe Le Guay (Le donne del 6° piano) è deliziosamente sconcertante. Ci punge: fino a che punto è lecito ridere di se stessi se vediamo ciò che siamo? Quando lo sberleffo finisce di essere catartico e inizia a diventare compiacente? E' in fondo la questione che la grande satira settecentesca poneva ai suoi ipocriti contemporanei e che oggi, mutatis mutandis, sferza cinici e complici della nostra miserabile specie. Moralista? Elitista? Borghese? Sono ammesse tutte le etichette, a patto di non farne scudi di risentimento e di non tirarsi fuori: chi può dire di non essere manigoldo oggi, denuncia Il misantropo di Molière?
L'ossessione per questa piéce costerà cara a Gauthier Valence (Lambert Wilson), star del grande e piccolo schermo (nonostante il talento, deve la sua fama e le sue ricchezze a una penosa fiction televisiva), di passaggio a Ile de Ré per convincere l'eremita Serge (Fabrice Luchini), a tornare sulle scene. Gli vorrebbe affidare la parte di Filinte, l'uomo capace di tollerare i comportamenti dei suoi simili: "Un rassegnato, il vero pessimista della piéce", lo definisce Serge. Che da par suo non ne vuole sapere. Rintanatosi in una vecchia casetta avuta in eredità, ha chiuso col teatro, con gli attori e con gli uomini per via di una cocente, passata, delusione.E poi, se dovesse scegliere, farebbe Alceste, il misantropo, "il vero ottimista della commedia". Si danno tempo. Quattro giorni di prove, per provarsi e provare di essere meglio l'uno dell'altro. I dialoghi rimpallano, da Molière ai rapporti umani, dai personaggi ai loro interpreti (uno puro e intransigente, l'altro più votato al compromesso). Emergono pian piano rancori, slanci, animosità e bassezze, materiale umano che si stacca dalla pagina e affonda impietoso nei vissuti, in un magnifico, amarissimo, duetto di finzione e verità, teatro e vita.La sceneggiatura (di Le Guay e Luchini) è musica, ma senza questi due splendidi attori (affiancati per un tratto di strada dalla nostra Maya Sansa) sarebbe muta.
Le nubi si diradano, qualcuno ritrova il sorriso, la fiducia, l'amore, il film si apre (la bicicletta, o dell'uomo in movimento), l'arte guarisce. Ma l'arte non mente. Diffidate allora di canzonette (c'è anche il mondo di Jimmy Fontana), demagogiche stoccate - cultura alta vs. cultura bassa, vecchie e nuove generazioni - e gag facili facili. Il film lusinga, il film inganna, l'arte no. Questo Molière avvinghia il suo pubblico come un amante. Ma quello del Misantropo resta un serpente. Un morso vi sarà fatale.