New York, 1983. Hector Negron, impiegato delle poste prossimo alle pensione, spara in pieno petto ad un cliente dallo sportello francobolli. Apparentemente inspiegabile, quel gesto conclude invece una storia iniziata molto tempo prima, nel 1944, in Toscana, durante la seconda guerra mondiale. È qui che Negron, insieme a tre commilitoni della 92° Divisione "Buffalo Soldiers" (composta interamente da soldati di colore), evitando il fuoco nazista, attraversa il fiume Serchio e raggiunge un borgo oltre le linee nemiche.

Lontani dal resto dell'esercito, in attesa che i superiori inetti (e naturalmente bianchi) impartiscano loro degli ordini, i quattro soldati entrano in contatto con gli abitanti del luogo, con i partigiani, e soprattutto con un bambino di 8 anni, miracolosamente scampato all'eccidio di Sant'Anna di Stazzema.

Partendo dall'omonimo best seller di James McBride, anche sceneggiatore con la consulenza di Francesco Bruni, Spike Lee abbandona la guerriglia urbana e si misura per la prima volta con la guerra, quella vera. Lontano dagli States, confeziona un'opera distante dal suo cinema precedente, pure imprendibile in una definizione univoca (dalla militanza "nera" degli inizi a La 25° Ora, poi Inside Man fino al documentario sull'uragano Katrina, il monumentale When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts): Miracolo a Sant'Anna rivela sin dal titolo una programmaticità che nel corso di 144 minuti, talvolta estenuanti, si appella spesso all'enfasi (dal ralenti della tazzina che cade dalle mani di Lo Cascio a certi sguardi insistiti di Antonutti), e ricorre alla didascalia per arrivare dove sarebbero bastati spontaneità e meno ghirigori.

Certo, il regista di Atlanta insiste ancora molto sulla "questione razziale", e si capisce che il cuore del suo racconto sta nell'epopea dei neri mandati a morire come soldati (e cittadini) inferiori: ma eccede nel sentimentalismo (Angelo, il giovanissimo protagonista interpretato dall'esordiente Matteo Sciabordi, è una sintesi poco riuscita tra il Pinocchio di Comencini e il figlio del Benigni de La vita è bella), e spesso non è impeccabile nella direzione degli attori (ne fa le spese soprattutto Luigi Lo Cascio), trasformando i personaggi in macchiette e inciampando negli sfondoni delle scene di massa, a cominciare dalla strage di fronte alla chiesa di Sant'Anna di Stazzema. Che Spike Lee, come il romanzo prima di lui, ipotizza scaturita dal tradimento di un partigiano. Ipotesi quantomeno discutibile, ma è l'ultimo dei problemi in un film così poco riuscito.