Fino a un certo punto le cose sono chiare. Un detective solitario (Mark Wahlberg) indaga sull'omicidio di moglie e figlio. Sono coinvolti energumeni con le braccia tatuate di demoni alati, che assumono sostanze blu fluorescenti, prodotte dalla casa farmaceutica in cui lavorava la defunta signora. Poi tutto s'ingarbuglia, il caos (anche stilistico) prolifera, la soluzione - evidente per tutti- sfugge al protagonista. La coerenza narrativa non deve essere stata la preoccupazione principale degli artefici di Max Payne, omaggio al videogame che ha innovato l'uso delle interfacce e le coreografie di ascendenza cinematografica. La script di Thorne utilizza persino materiali e situazioni dell'arcade, mentre John Moore – che aveva diretto il remake de Il presagio – si adopera nel ricreare atmosfere malsane e artifici visivi di dubbio impatto (una New York banalmente sommersa dalla notte perpetua e la pioggia battente), cercando di unire l'action contemporaneo al noir classico. La sintesi si riduce a una rintronante ammucchiata di effetti sonori e pistole, sbirri corrotti e mostri in CG, nostalgie di Bogart e - ogni riferimento all'impassibile Wahlberg è del tutto intenzionale - pietrificati epigoni. Maximum Pain.