In occasione della sua esperienza di giurata alla Berlinale nel 1998, la critica francese Annette Insdorf elaborò tre criteri per riconoscere il cosiddetto "film d'autore": 1) Una bella storia ben raccontata 2) Uno stile cinematografico preciso e riconoscibile 3) La risonanza, quel qualcosa che tocca le nostre corde più profonde e rimane nella memoria, migliorandoci come esseri umani.

Va detto che, pur con tutte le riserve sul punto 3 (quante opere universalmente riconosciute d'autore ignorano preoccupazioni filantropiche di sorta?), la formula Insdorf funziona.

Noi critici in effetti subiamo film come quelli descritti dalla Insdorf come fa il paziente quando il medico prova su di lui lo stimolo-risposta. Tutto questo per dire che Mademoiselle Paradis di Barbara Albert è il martelletto picchiettato sul nostro ginocchio.

D'altra parte solo un bovaro (con tutto il rispetto) potrebbe mostrare indifferenza verso la vicenda di una pianista cieca della corte asburgica, curata nientepopodimeno che dall'inventore del mesmerismo e precursore dell'ipnosi, Franz Anton Mesmer, con la sola imposizione delle mani come un qualsiasi santone senza Dio (oggi lo chiamiamo reiki). In effetti la storia poco nota di Maria Theresia von Paradis è di quelle da raccontare per il concentrato di curiosità che si porta e per tutte le altre implicazioni - e siamo già al punto 3 del modello Insdorf - che sottende. Barbara Albert, senza mai scaldare quel clima di gelido ipocrita conformismo in cui si muove l'alta società austriaca del XVIII° secolo, riesce a muovere le corde nascoste dell'empatia verso un'eroina sfortunata e il suo provvisorio salvatore, vere e proprie figure di contraddizione - oggi diremmo "ribelli" - per l'epoca.

Non era così solito che una donna, una con una grave menomazione sensoriale, sfottuta come poche da gallinelle cortigiane, vessata da un padre padrone e da una madre complice, entrambi attenti solo a non dispiacere il mortifero e mortificante rango d'appartenenza, occluso e occludente sulla base di regole di ingaggio, di comportamento e di etichetta abbastanza antipatiche, spiccasse per talento artistico al punto da richiamare frotte di nobili e notabili ad ogni esibizione.

Decisamente meno insolito per l'epoca che uomini di scienza coltivassero idee  filosofiche e pratiche esoteriche come alchimisti, così accade per l'appunto al nostro dottor Mesmer, figura a tutto campo dell'uomo di conoscenza omerico, con quella preparazione in medicina arricchita dalla sensibilità per l'invisibile e i suoi fluidi, una certa predisposizione estetica e una prontezza d'animo da uomo di mondo. Un tipo decisamente eccentrico e perciò pericoloso per la società del tempo che lo rifiuterà, nonostante gli evidenti progressi compiuti con la von Paradis.

Vivisezione sociale, affresco storico, femminismo, rapporto tra arte e scienza. Al film della Albert non poteva poi mancare la questione metacinematografica, l'allegoria dell'ipovedente che però vede di più quando non vede, la"visione interiore", poi anche dolorosamente oggetto di visione degli altri. Una problematica quasi kechichiana (ecco un autore che non dovrebbe mai diventare un aggettivo).

Ce n'è abbastanza per rivendicarsi moderni, anche quando ad affascinare di più è proprio il dettaglio d'epoca che la ricostruzione elegante della Albert e le perfette performances delle sue marionette, Maria Dragus e Devid Striesow su tutti,  rendono in maniera impeccabile. Perfino troppo. Lo scotto è quello tipico dei film in costume, la preoccupazione di non tradire il passato e le sue forme a discapito di qualche licenza in più. Il quarto criterio, quello che alla Insdorf è sfuggito: 4) rompere gli schemi.

Peccato che con due personaggi controcorrente così sia toccato proprio all'autrice seguire la retta via.