Ispirato dalla vera storia d'una bizzarra impresa narrata dalle recenti cronache tedesche, l'italo-inglese Uberto Pasolini scrive e dirige Machan, storia di Manoj e Stanley, due giovani cittadini dello Sri Lanka persi nella rincorsa al sogno d'emigrare in Germania. La burocrazia teutonica sembra averla vinta, ma i due oppongono la più incredibile delle invenzioni: ottenere un invito in Baviera spacciandosi per l'inesistente nazionale di pallamano. Il piano miracolosamente riesce e dopo mille peripezie la "squadra", che nel frattempo si è raccolta attorno al duo, scompare disperdendosi in giro per l'Europa.
Machan parte lentissimo, raggiungendo faticosamente l'approdo agli snodi narrativi che consentono al regista di amplificare al massimo i toni della commedia. La sceneggiatura pasticcia nell'amalgamare ritratto sociale, sguardo malinconico e ironia, riuscendo di più nell'ordire sapide gag e meno nel dare un taglio forte, un corpo omogeneo. Pasolini non riesce a nascondere l'inesperienza che sta dietro una narrazione dal ritmo discontinuo, pronta a trovare l'effetto - non sempre con la stessa efficacia - ma incapace di costruire un discorso. Dall'intollerabile didattismo delle prime inquadrature il film, col procedere del racconto, cresce, ma il finale, chiuso dal più trito dei clichè visivi, resta inerte, spoglio e pallido. Inutile sottolineare le affinità con gli "squattrinati organizzati" che in Full Monty trovavano il riscatto economico e sociale grazie alla propria temeraria inventiva, qui però il tema è ben più complesso. E l'occasione cronachistica - se è lecito rilevarlo - ancora più rilevante; ma Pasolini sembra non saperene approfittare.