Bruno Dumont dimostra che la (nuova) strada intrapresa con la sorprendente miniserie P’tit Quinquin (la seconda stagione è in lavorazione) non è stata solamente una semplice deviazione di un percorso fino ad allora caratterizzato da film estremi e non sempre facilmente accessibili. Il regista francese si dà quindi anche stavolta alla commedia, in costume, surreale e grottesca, per portare oltre i limiti del parossismo la contrapposizione tra classi sociali.

Estate 1910, sulla Channel Coast avvengono misteriose sparizioni. E un’insolita storia d’amore, tra un giovane raccoglitore di ostriche (il Ma Loute del titolo) e la nipote dei borghesi Van Peterhem, creerà ulteriore confusione.

Dumont è sin da subito chiarissimo: da una parte le solite facce di incredibili, perfetti sconosciuti, non attori chiamati a dare il "peggio" di sé per interpretare la famiglia Brufort, modesti raccoglitori di molluschi che, per arrotondare, si fanno pagare dai benestanti per essere aiutati ad attraversare un breve tratto della baia; dall’altra, i riconoscibilissimi Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi e Juliette Binoche, naturalmente impiegati per vestire i pomposi panni dei Van Peterhem. In mezzo a questi, l’obeso ispettore Machin e il suo assistente Malfoy tentano, senza particolari risultati, di scoprire qualcosa di più sulle misteriose sparizioni dei turisti.

Estremizzando i due mondi, il regista francese chiede alle sue star di non trattenersi in un alcun modo, cercando anzi una recitazione sempre sopra le righe, oltre il teatrale, per rimarcare l’ipocrisia di una nobiltà già all’epoca antistorica e decaduta. Di contro, alla famiglia di pescatori, suggerisce di non dimenticare mai la natura ferina che ne contraddistingue anche i tratti somatici, costringendoli a fagocitare (letteralmente) le carcasse di una specie destinata all’estinzione.

Il tutto, naturalmente, incastonato nella cornice struggente e mozzafiato di un luogo selvaggio che, a quanto pare, neanche la forza del vento è capace di trasformare. Saranno le persone, piuttosto, a volare via, vuoi per miracolose ascese verso il divino, vuoi per trasformarsi in veri e propri palloni aerostatici con cui adornare una festa in giardino. Ed è anche nell’insistenza di questo nonsense esasperato che Dumont, trascorsa la prima mezz’ora del film, finisce per annoiare. Quasi incapace di arrestarsi, come accade con gli innumerevoli ruzzoloni dell’irresistibile Machin, personaggio che sembra uscito dalle comiche in bianco e nero dei primordi della storia del cinema. Ma anche quello è un giochino che dopo un po’ stanca.

Chissà, forse è ancora presto per dirlo con certezza, ma ancora tendiamo a preferire il Dumont vecchie maniere. Si rideva meno (anzi, per nulla), ma i suoi film erano capaci di durare ben al di là dei titoli di coda. Un cinema cannibale, quello sì capace di mangiare anche lo spettatore, che non faceva prigionieri.