"Quella dei kamikaze è l'errata interpretazione del Bushido. Io credo nella vita non solo per me, ma per tutti. Le decisioni del singolo non possono mai riguardare il mero interesse personale, ma devono rivolgersi al bene superiore comune. La morte in battaglia del Samurai è un sacrificio nobile, che arricchisce il valore della vita, non ha nulla in comune con chi uccide civili innocenti". Così Tom Cruise, di passaggio a Roma per promuovere L'ultimo samurai diretto da Edward Zwick, ha tenuto a precisare il senso della filosofia della "buona morte" che aleggia in tutto il film, scritto e pensato come un omaggio (forse un po' naif) alla tradizione dei samurai, al codice del Bushido, ma anche alle filosofie orientali e a quella zen, miscelati con una buona dose di semplicismo alla visione del mondo di Tom Cruise, da anni militante della setta di Scientology fondata da Ron Hubbard, un mediocre scrittore di fantascienza diventato santone di mezza Hollywood. L'ultimo samurai, ambientato alla fine del 1800, racconta la storia di Nathan Algren, capitano del 7° cavalleggeri, un uomo alla deriva: dopo la Guerra Civile americana, gli orrori dello sterminio dei pellerossa, infatti, lo perseguitano e lui trova rifugio solo nell'alcool. Assoldato per addestrare un esercito di leva in Giappone, con cui i consiglieri dell'imperatore intendono distruggere i samurai per aver mano libera nei loro loschi traffici commerciali con gli Stati Uniti, Nathan entra in contatto con Katsumoto, ultimo erede di una dinastia di guerrieri, e resta affascinato dalla sua filosofia, tanto da abbracciarne la causa. Il film, come si vede, non racconta nulla di particolarmente nuovo, farcito com'è di citazioni, più o meno esplicite, che vanno dall'evocazione delle coreografie belliche di Kurosawa all'ecologismo spicciolo di Balla coi lupi, passando persino per Karate Kid. Appurati questi limiti, va però detto che, nonostante le due ore e ventitre minuti, francamente eccessive, e l'apparente immortalità del personaggio di Cruise, capace di sopravvivere persino a raffiche di mitraglia (il che lo rende più simile a un Highlander, che non a un Samurai), la vicenda si fa seguire con piacere per la carnalità di corpo a corpo in cui è bandita la computer grafica e si riscopre l'antico gusto di un duello tra uomini e non tra stunt digitali. Inevitabile poi pensare a vicende contemporanee, quando si ammonisce a non umiliare il nemico sconfitto, o s'invita a comprendere civiltà diverse dalla propria, evitando di bollarle con l'infamante etichetta di "barbare". Nell'America Imperiale di Bush II, persino un polpettone come L'ultimo samurai assume così quelle valenze "liberal" che, nel 1970, poteva avere un film come Soldato blu, il che offre lo spunto per tristi riflessioni.