Harry Dean Stanton è Lucky, un novantenne che ha sempre vissuto seguendo le proprie regole e infischiandosene del giudizio di coloro che vivono nella sua città ai margini del deserto. Dopo una caduta, comincia a temere la morte e la solitudine ed è spinto verso un percorso di auto-esplorazione alla ricerca di ciò che spesso è irraggiungibile: l'illuminazione.

Per il suo primo film da regista, John Carroll Lynch – navigato attore classe ’63 (tra le ultime apparizioni, The Founder, era uno dei due fratelli McDonald, e Jackie, era Lyndon B. Johnson) – mette in scena uno script di Logan Sparks e Drago Sumonja: script che sembra nascere con la precisa volontà di costruire un film non “con” Harry Dean Stanton, ma “su” Harry Dean Stanton.

Sì, perché l’adesione al personaggio del compianto, grande attore scomparso proprio un anno fa (il 15 settembre 2017) va ben al di là del consueto “mestiere”.

E allora eccolo lì, incedere flemmatico e con la risposta sempre pronta, abitare spazi che non possono non riportare alla mente quel capolavoro che fu Paris, Texas e, allo stesso tempo, riproporre echi della ben più recente, straordinaria stagione 3 di Twin Peaks.

E non è un caso, crediamo, che tra i vari incontri abituali del protagonista ci sia proprio David Lynch (disperato perché la sua tartaruga ultracentenaria se n’è andata chissà dove…), regista che ha diretto Harry Dean Stanton in più di un’occasione, a cominciare da Cuore selvaggio, passando per Una storia vera per arrivare poi a Inland Empire e, appunto, cinque episodi della serie di culto.

John Carroll Lynch – che con l’omonimo David condivide solamente il cognome – sembra voler assecondare lungo tutto il percorso questa continua e malinconica altalena esistenziale, seguendo senza intromissioni l’incedere goffo e stralunato di un uomo prossimo ad un qualcosa di simile alla fine, capace però di avvicinarcisi con il sorriso. Ciao Harry, good Luck(y).