Non serve molta immaginazione – ne basta meno comunque di quella sfoggiata dall’autore in dieci anni di carriera – per capire che questo è il film di Natale di Sion Sono. Eccentrico, sgangherato, follemente geniale come lui. Solo a Sion Sono poteva venire in mente che un storia tipo La vita è meravigliosa o Miracolo sulla 34ma strada potesse tramutarsi in un sembiante cinematografico capace di cambiare continuamente forma e di assumere di volta in volta le sembianze del musical, del kaiju-movie stile Godzilla, dei Muppets e di dio-solo-sa-che-altro.

La storia è quella del classico sfigatone senza un domani, che sogna di diventare una rockstar per poi ritrovarsi nei panni dell’umile impiegato fantozziano inetto, deriso e vessato da tutti (persino da squallidi opinionisti tv che, nell’immaginazione dell’uomo, si rivolgono a lui dal piccolo schermo apostrofandolo come “perdente”). L’unica creatura a dargli un po’ di sollievo è una piccola tartaruga acquistata da un venditore ambulante. Ma anche questa gioia è destinata a durare poco. Non appena i perfidi colleghi scoprono l’esistenza dell’amichetto anfibio riprendono a tormentarlo a tal punto da costringerlo a gettare l’animale nel water e a tirare lo sciacquone.

Ma la soluzione si rivela peggio del problema: ora il Giappo-Fantozzi piange disperato e non appena vede qualcosa che somigli anche vagamente a una tartaruga dà di matto. Gli capita con la chitarra di una band emergente, Revolution Q, che per tutta risposta lo trascina tipo fenomeno da baraccone nel loro concerto all'aperto. Costretto a esibirsi, tira fuori un pezzo dedicato alla tartaruga amata che due agenti discografici scambiano per una canzone ironica e pacifista sulla Bomba.

Su due piedi gli fanno firmare un contratto. Tutto cambia.

Se la fortuna aiuta gli audaci e il nostro uomo non lo è, dov’è il trucco? C’è il secondo (o terzo o quarto) film che sviluppa Sion Sono, tra gli anfratti di una fogna pubblica, dove vive un santo bevitore e un esercito di animali e di pupazzi parlanti. Lì c'è anche la tartaruga. Grazie a un sortilegio che non è il caso qui di spoilerare, è lei che procura le fortune all’ingrato padrone. Che ispira canzoni e melodie. E che diventa sempre più grande mentre crescono a dismisura le ambizioni dell'uomo. Capite l'antifona.

Così, tra metafore spicciole, demenzialità a go-go, pop song inaudite, citazioni, omaggi, invenzioni e stupefazioni (non per tutti i gusti, sia chiaro), questo Love & Peace si sdoppia, si sfrange e si rattoppa, neanche fosse un enigma diottrico. Strampalato come il discorso di un ubriaco, questo oggetto misterioso, questo terribile e fantastico guazzabuglio, finisce per avere una sua unità, un suo significato, un suo codice estetico e morale. In fondo è un canto alla purezza. Sgangherato finché si vuole. Difficilmente eseguibile allo stesso modo una seconda volta. Il che è abbastanza sconcertante. Se proprio non deve essere ammirevole.