Il protagonista della storia raccontata nel primo lungometraggio dell’iraniano Alireza Khatami è il vecchio custode di uno sperduto e fatiscente obitorio. L’uomo non ricorda il suo nome, nonostante possieda una memoria prodigiosa. Trascorre le sue giornate prendendosi cura delle lapidi e aiutando tutte quelle persone che si rivolgono a lui per individuare i corpi dei propri cari “scomparsi” – ci troviamo in una qualche variante ucronica del Cile dei desaparecidos. La sua compassionevole opera sembra animata da un’afflizione molto profonda, legata al ricordo di un’antica perdita. Gli orbitano intorno una serie di personaggi altrettanto misteriosi e tormentati: un becchino ossessionato dalle storie dei morti che deve interrare di giorno in giorno, una donna inconsolabile alla ricerca di una figlia scomparsa e l’autista del carro funebre alle prese con un passato difficile. In seguito all’irruzione delle milizie militari, l’uomo scopre in un sacco mortuario il cadavere martoriato di una giovane donna sconosciuta. Il desiderio di concederle una tomba dignitosa lo spinge ad intraprendere una sorta di viaggio mistico nel corso del quale attraverserà deserti e si imbatterà in labirintiche biblioteche sotterranee ed enormi cetacei volanti.

Los versos del olvido è un sorprendente poema sulla memoria, sull’immaginazione e sul linguaggio, ricco di suggestioni filosofiche e letterarie: da Paul Celan a Martin Heidegger, passando per il realismo magico di Gabriel García Márquez e per i racconti di Jorge Luis Borges. Non è semplicissimo orientarsi nella foresta simbolica dei riferimenti e si finisce per restare aggiogati dalla potenza visionaria delle immagini, meravigliosamente fotografate in un riverbero di toni che spaziano dall’oro al verde-azzurro. Attraverso lo sguardo struggente del protagonista (interpretato dall’attore spagnolo Juan Margallo), il regista dipinge un raffinato apologo materico che ci restituisce poeticamente il senso terribile di una tragedia universale senza tempo.