Se A Casa nostra era stato il mosaico cupo, macroscopico, dell'Italia oggi, Lo spazio bianco ne è un intimo frammento, un riverbero interno. Là era l'intreccio di misfatti pubblici e disfatte private a delineare le proporzioni della crisi - politica, collettiva, morale -, stavolta il procedimento è sineddotico, il taglio personale, il malessere circoscritto, ma l'effetto di risonanza non meno contestuale. Nell'adattare l'omonimo romanzo di Valeria Parrella, Francesca Comencini ha operato uno slittamento decisivo, trasformando il disagio interiore in inquietudine generale, lo smarrimento del singolo in spaccatura sociale. Il dramma di una madre - Maria (tra le prove migliori di Margherita Buy), che aspetta la nascita definitiva della figlioletta Irene, nata prematura e imprigionata in un'incubatrice dalla quale non sa se uscirà mai - che rifrange un'angoscia più grande. Non è sbagliato parlare di dramma vaginale per l'ultimo film della Comencini, ma limitante sì. La regista non ha voluto fare un film sulle e per sole donne, ma costruire attorno alla solitudine di un personaggio un'atmosfera, un colore ambientale. La storia che racconta Lo spazio bianco è a densità zero: non succede nulla, tutto è attesa, ripetizione, sonorità musicali e interiori. E' un film liquido dove è facile scivolare fuori, smarrirsi. La Comencini dice tutto dove non racconta nulla, nella messa in scena di una Napoli atipica, sempre deserta, nelle volte in cui ci fa vedere la Buy al telefono mentre "parla" con nessuno, nelle parentesi oniriche, talvolta forzate, come quella del balletto in ospedale con le altre "madri in attesa", tutte nude ad eccezione della protagonista, incapace fino in fondo di spogliarsi, di consegnarsi senza difese. E' da questa ritrosia ad aprirsi all'altro, in questa crisi di fiducia che la Comencini riparte per avviare un nuovo confronto tra cinema , società e politica. Più aperta alla speranza stavolta. In attesa che dall'incubatrice prima o poi esca anche l'Italia.