Risuona il potere immaginifico del fado nel secondo - dopo Notte senza fine di Elisabetta Sgarbi - film italiano in concorso al Torino Film Festival, L'iguana, opera prima di Catherine McGilvray, australiana da molto tempo nel nostro Paese, dove ha realizzato il corto pluripremiato Aspettando il treno. Tratto dal romanzo omonimo di Anna Maria Ortese pubblicato nel 1965 e scritto dall'autrice con Bruno Roberti, il film si nutre di afflati poetico-formali propri al cinema del maestro portoghese Manoel de Oliveira - espressamente citato con Ruiz e Polanski quale nume tutelare dalla McGilvray - e prende da un altro grande lusitano, il compianto Joao César Monteiro, l'attrice protagonista Claudia Teixeira, qui nei panni di una servetta metamorfica. Una serva maltrattata da tre nobili portoghesi decaduti sulla sperduta isola di Ocana: qui approda Aleardo (Andrea Renzi), ricco architetto italiano, e rimane abbacinato da questa inquietante presenza, ora rettiliforme, poi diabolica, infine indifesa. Quale verità? Difficile carpirla dal cuore di un film in cui si intrecciano stilizzazione ed ellissi, visionarietà e fiaba: "L'iguana - afferma la regista - è un'opera simbolica sul potere del denaro e sul dolore delle creature povere e semplici. Risponde a una sfida: rappresentare l'irrappresentabile". Il film, un articolo 8 costato 1 miliardo e 800 milioni di lire e distribuito dalla Revolver, si costruisce proprio in questa dimensione ossimorica, in cui si (con)fondono echi iconografici vermeeriani e paesaggi liquidi, manierismo letterario e minimalismo visuale. Trasponendo lo straniamento spazio-temporale dalle Azzorre all'Oasi di Vindicari in provincia di Siracusa, la McGilvray non muta però una convinzione della Ortese: "Il male e il bene sono negli occhi di chi guarda".