Meglio l'originale, ma tutt'altro che disprezzabile. Parliamo di Let Me In, remake Usa diretto da Matt Reeves (Cloverfield) dello svedese Lasciami entrare (Let the Right One In) di Tomas Alfredson, entrambi adattamenti del bestseller omonimo di John Ajvide Lindqvist (Marsilio, 2007).
Fuori concorso a Roma e a inizio 2011 in sala con Filmauro, co-prodotto dall'inglese Hammer dopo 30 anni d'assenza, questa copia è poco conforme e sostanzialmente riuscita: dai sobborghi di Stoccolma si passa al New Mexico, mantenendo gli anni '80 - Reagan che in tv divide Bene (americano) e Male sovietico) come acqua e olio… - e non sovvertendo tanto la storia quanto il racconto. Il dodicenne Owen (Kodi Smit-McPhee, già in The Road), vittima del divorzio dei genitori e del bullismo di alcuni compagni di scuola, fa amicizia con la nuova vicina di casa, Abby (Chloe Moretz): occhioni, biondina e anche lei dodicenne, ma da molto tempo... Dopo alcuni "fatti di sangue", Owen scoprirà che Abby è un vampiro, ma non sarà la fine del (loro) mondo.
Alfredson aveva regalato un (quasi) capolavoro, che faceva dei vampiri metafora del bullismo, l'età di transizione, il divorzio, la stagnazione socio-economica e “Io è un altro”: Reeves si mette in scia, senza abdicare alla funzionalità poetica e antropologica del sangue versato e trovando anche lui due ottimi piccoli interpreti - pure qui, un filo sotto gli originali. Comunque, non delude: più didascalico di Alfredson (vedi l'incipit reaganiano), più spettacolare (effetti speciali per i salti scimmieschi di Abby e le fiamme – inverosimili – all'ospedale, il make up del “padre” di Abby, interpretato da Richard Jenkins), meno inventivo dietro la mdp (vedi il finale in piscina) e più volontariamente stiloso (quasi calligrafica la fotografia), non sposta di una virgola il cui prodest di un remake sotto il profilo Cinematografico, ma nemmeno sfigura. Riprova dell'inconfutabile valore umano e umanista delle pagine di Lindqvist, segno che buon sceneggiatura non mente e che nelle bocche dei vampiri scorre buon sangue: a patto di non farne una romantica astinenza alla Twilight o futile ebbrezza alla True Blood, bensì affondarne i canini nella realtà, e nella tenerezza della crescita al mondo. Sì, l'horror può essere amore.