Tratto dall’omonimo libro di successo di Karine Tuil, Le choses humaines è diretto da Yvan Attal. Fuori concorso a Venezia, è interpretato, tra gli altri, da Ben Attal, Suzanne Jouannet, Charlotte Gainsbourg, Pierre Arditi, Mathieu Kassovitz, Benjamin Lavernhe, Audrey Dana e Judith Chemla.

Nella Parigi bene distingue una (ex) coppia), i Farel: Jean (Arditi) è un importante giornalista, assertivo, donnaiolo, forse prossimo al tramonto; Claire (Gainsbourg) una saggista competente e femminista radicale. Due volti noti, rampanti, rispettati, con un figlio modello, Alexandre (Attal), che studia a Stanford, suona il piano, è un amante appassionato. Durante un breve ritorno a casa, il giovane conosce Mila (Jouannet), figlia del compagno della madre, e la porta a una festa di ex compagni del liceo: l’indomani, Mila sporge denuncia accusandolo di stupro.

Attal infila il cinema in un argomento ultrasensibile, mettendo al muro o, comunque, davanti alla camera una teoria di questioni indifferibili: il potere, e segnatamente quello maschile; il privilegio di classe; l’incomunicabilità; la verità giudiziaria; il desiderio e l’abuso; il “no” e la zona grigia del consenso; la gogna (social) mediatica; la causa delle donne e, segnatamente, del #MeToo; le conseguenze a lungo termine di un’azione umana.

Il cast è uniformemente all’altezza, avvocati e non concorrono a una gioia dialettica, che riduce complice una camera mobile e un montaggio svelto l’abituale sedentarietà del court drama cui Les choses humaines si risolve, ma il movimento è anche e soprattutto di pensiero: è un film che non si nasconde, e senza manicheismo né giustizialismo prova a fare giustizia, ricordando che all’uopo non servono soldati/esse (del #MeToo) ma giudici.

Il terreno è scivoloso, addirittura infido, ma Attal che scrive con Yaël Langmann ha gli strumenti per non cadere nella polemica sterile, nelle rassicurazioni futili, nell’ottimismo stolido: detto che la verità non esiste, e che le rispettive realtà, del privilegiato Alexandre e della modesta Mila, hanno forse eguale legittimità, il grigio alimentato dalla differenza di estrazione e competenze può partorire almeno una verità giudiziaria?

Attal, che ha nel cast la compagna Gainsbourg e il figlio Ben avuto dall’attrice, confida illuministicamente nella possibilità di un verdetto e cala lo spettatore nel ruolo del giurato, chiedendogli equanimità e dirittura.

Nel trattare lo stupro e i suoi derivati psicologici, sociali, politici, ovvero processuali ha una misura aurea, vale a dire la giusta distanza: è un grigio luminoso e inclusivo quello che porta sullo schermo, malgrado la programmaticità del suo non essere a tesi e una verbalità a tratti verbosa e didascalica.

Una Mostra più generosa, pardon, coraggiosa forse l’avrebbe messo in Concorso.