Maria Celeste, vedova intorno ai 60 anni, un giorno esce dalla casa di cura in cui vive da tempo, si addormenta su una panchina vicino alla stazione ferroviaria e viene svegliata bruscamente da una ragazza che le mette tra le braccia un bimbo e scappa via… E’ un gesto che potrebbe innescare vicende di vario tipo. La ragazza è infatti una straniera, fa la prostituta e cerca palesemente di togliersi un impiccio non desiderato. Il versante sociale e di denuncia che sembrerebbe il più immediato viene invece messo da parte.

Al quarto film per il cinema (Mille bolle blu, 1993; Camerieri, 1995; Il grande botto, 2000) e dopo un’assidua presenza nelle fiction di RAI Uno), Leone Pompucci sceglie da subito la strada di un realismo angosciato e introverso, opta per una fotografia dai colori seppia, pedina una visionarietà confusa eppure di grande efficacia descrittiva. Il personaggio di Maria, cui offre volto intenso e corrucciato Ida Di Benedetto, è affidato ad una dinamica di gesti e spostamenti caratteriali che l’attrice calibra, facendone una sorta di Anna Magnani del terzo millennio,  prototipo della donna sofferente, resa ostile dalle rinunce e dai rimorsi.

Il girovagare della protagonista apre gli spazi per una scelta narrativa che accumula sogni, uscendo dalla cronaca per affidarsi ad un deciso scenario onirico. Nel quale trovano posto figure palesemente simboliche (il ‘felliniano’ elefante che gira per le strade) dentro scenari di eloquente e eccessivo compiacimento drammatico. Imboccata la strada della metafora, Pompucci vi resta attaccato, forse rischiando qualcosa in termini di credibilità e attenzione. Ma si tratta di un coraggio espressivo che merita incoraggiamento.

A supportare la protagonista c’è del resto un cast di tutto rispetto: Carla Signoris (Clara), Catrinel Marlon (Giuletta), Augusto Fornari (Riccardo), Domenico Diele (Antonio),Mariano Rigillo (Renato). Tutti spinti dal regista ad una recitazione sull’orlo di una crisi di nervi. Come in un clima da fine del mondo.