Non vedo, non sento, non parlo. La parabola delle tre scimmiette, icone dell'omertà (non solo mafiosa) sono un modo di dire, ma anche di pensare e di vivere. Nuri Bilge Ceylan, raffinato e acuto cineasta, ne ha fatto un esercizio di stile e un racconto di vita. Ha rinchiuso i tre simpatici animaletti nei corpi di una famiglia turca: padre, madre e figlio. Lui non vede, lei non sente, lui non parla. Vittime e carnefici l'uno dell'altro, i loro silenzi e il loro amore morboso, tutto passa alla lente d'ingrandimento di un regista sensibile (anche troppo) e molto attento. Insoddisfazioni, depressioni, ricatti non solo morali tracciano un quadro di meschinità parallele e complementari. Il "capofamiglia" (Yavuz Bingol) accetta di farsi nove mesi di carcere addossandosi la colpa di un incidente causato da un politico in ascesa (Ercan Kesal). Abnegazione al lavoro e stoicismo paterno e maritale, è disposto a perdere se stesso per sistemare la famiglia. Quando torna, però, capisce che sta accadendo il contrario e la disperazione lo attanaglia, una rabbia impotente di fronte alla moglie lontana e distratta (Hatice Aslan) e al figlio opportunista e vendicativo (Ahmet Rifat Sungar). Un quadro sociale e familiare avvilente, in cui la bella e matura Hacer rappresenta il contraltare potente, sensuale e nobile (nel bene e nel male) di tre uomini schiavi delle proprie piccole ambizioni ed egoismi. Il suo torto è vivere, non votarsi al sacrificio ma bruciare di passione. Non a caso è lei il solo ritratto riuscito al pur bravo regista. Troppo compiaciuto di sé disegna un prologo lunghissimo e faticoso, si perde in virtuosismi narrativi e visivi, non ritrova mai la leggerezza piena di significati che aveva reso tanto speciali Kasaba e Uzak, e la svolta "noir" finale è tardiva seppur di grande forza. Nuri Bilge Ceylan rimane uno dei migliori artisti della macchina da presa (il premio alla regia a Cannes non gli è sfuggito), disegna fotogrammi che sembrano quadri. Un pregio che qui diventa un difetto: non è una personale, ma un film.