Quando sentiamo nominare Le parole che non ti ho detto, la memoria corre subito al romanzo di Nicholas Sparks e al film del 1999: Kevin Costner, Robin Wright, Paul Newman, i messaggi d’amore custoditi in una bottiglia. Era un percorso di perdita e rinascita, di due amanti con alle spalle un divorzio e un lutto. Diventa quindi interessante la scelta italiana di trasformare Hope Gap (titolo originale) in Le cose che non ti ho detto, per la regia di William Nicholson. Le due vicende condividono il turbamento amoroso nel quotidiano, il dolore dell’allontanamento.

Va in scena la storia di un matrimonio al capolinea. Annette Bening e Bill Nighy si lasciano dopo ventinove anni. Il film nasce dallo spettacolo di Nicholson presentato a Broadway nel 1999: The Retreat from Moscow (La ritirata da Mosca). Il riferimento è alle guerre napoleoniche, al 1812, quando le mire espansionistiche del condottiero francese si schiantarono contro il clima gelido della Russia. Nicholson accosta il conflitto fisico, quello che si combatte con i fucili, alla disgregazione della vita quotidiana. Sembra suggerirci che la tragedia non sia solo collegata alla morte del corpo, ma anche a quella dei sentimenti.

Le cose che non ti ho detto (Hope Gap) è la cronaca di una passione ormai spenta, lontana dai canoni di Kramer contro Kramer di Robert Benton. Qui il figlio è già grande, se n’è andato di casa, cerca di costruirsi una sua dimensione. Il padre è un professore che si è innamorato di un’altra donna, e la madre fatica a riprendersi dal collasso del loro rapporto. Lei è un’appassionata di poesia: ai dialoghi si alternano i versi dei suoi autori preferiti.

 

Partiamo con William Butler Yates e la sua Un impulso solitario di gioia, ma il verso più citato è quello di Dante Gabriel Rossetti, che recita: “Sono già stato qui”. Tutto ciò che proviamo è frutto delle esperienze di qualcun altro. Condividiamo un enorme déjà vu, fatto di azioni ripetute e ricordi. Per questo Bening continua a vedere Nighy di schiena, seduto alla scrivania, anche quando ormai lui ha abbandonato la casa. Sullo sfondo ci sono le bianche scogliere inglesi. Alla bellezza della natura si contrappongono le luci soffuse di una villetta dove quasi tre decenni sono stati cancellati in un attimo.

Nicholson affronta la separazione con sensibilità, si affida a un’ottima Bening, e sceglie di non schierarsi. Il regista non inventa nulla, resta ancorato alle regole del genere, e a volte eccede nel rappresentare il rapporto tra voce interiore, poesia e prosa. Ma Le cose che non ti ho detto (Hope Gap) sa come toccare le corde giuste, nel suo essere il ritratto di un mondo che implode.