Non è un "noir alla luce del sole" (New York Times) né un "western con gli aeroplani" (Salma Hayek), ma il tentativo di tornare a far cassa con un pulp vecchia maniera.
Non si spiegherebbe altrimenti l'improvvisa virata di Oliver Stone verso il cinema mainstream dopo la serie dei documentari militanti dedicati ai leader rossi dell'America Latina (da Castro a Chavez). Vero, nel frattempo erano arrivate le tre "W" - World Trade Center, W. e Wall Street 2 (sottotitolo Il denaro non dorme mai, vagamente iettatorio a giudicare dal magro bottino del film al box office) - ma più che al mercato, erano progetti che guardavano alle urgenze della storia US con l'occhio "sinistro" del nostro (absit iniura verbis).
Le Belve (titolo originale Savages: connotazione meno negativa) è invece Assassini nati rimontato con U-Turn, una déjà vu in cerca di fan superstiti e insieme un gesto liberatorio - perciò altamente sconclusionato e violento - da parte di un regista la cui furia sembrava essersi smarrita sulla via dei documentari e della politica.
Tratto dal romanzo omonimo di Don Winslow, ambientato nella California meridionale, ha per protagonisti Ben, Chon e Ophelia - per i quali Stone ha chiamato le nuove leve del cinema hollywoodiano, Taylor Kitsch, Aaron Johnson e Blake Lively - i quali oltre a essere giovani carini e occupati nel più grande commercio di marijuana, si amano alla maniera di Jules & Jim. Vanno al massimo finché non si va in Messico. Meglio, è il Messico - nella fattispecie il cartello della droga gestito da una bella signora (Salma Hayek) e dal suo fido assistente (l'abominevole Del Toro) - che va da loro per "invitarli" a sottoscrivere un accordo commerciale. Il rifiuto del quale costerà caro.
Si procede per enjambements testuali e traslitterazioni di genere, mutuando un pastiche fuori tempo massimo. Operazione con parecchi suffissi (vedi alla voce omaggi) e troppi film - da Baywatch al drug-movie, dal menage a trois allo snuff, dal triello leoniano allo splatter tarantiniano - per risultare anche compatta nello stile e coerente nelle idee.
Stone divaga svagato tra illuminazioni improvvise e numerosi abbagli (certe immagini b/n lasciano senza fiato, altre sono soltanto sporche verniciate di colore), attori bravi (Del Toro e Travolta) e altri solo compiacenti, violenza e ilarità, architetture provvisorie e materiali di scarto. Il piatto servito somiglia a un grasso e lercio panino di mezzanotte, forse gustoso, probabilmente nocivo. L'esperienza risulta ambivalente, tipo rutto d'autore.
Fumo negli occhi? Non solo. II sovradosaggio retorico disinnesca la guerra alla droga nella forma, ma lascia alterata la "sostanza", ovviamente stupefacente. La voce off della Lively, spartito sonoro di un finto noir, non inganni: fuori dal coro è God Save the Weed. Fuoricampo Stone(d).