2003. Da un passato solo in apparenza sepolto riecco sbucare nelle vite di Sal Nealon (Bryan Cranston) e Richard Mueller (Laurence Fishburne) l'ex commilitone Larry 'Doc' Shepherd (Steve Carell). Insieme hanno condiviso, da marines, l'inferno vietnamita. Poi, dopo una vicenda che ancora - e in modo diverso - perseguita ciascuno di loro, ognuno prese la sua strada. Ora, all'indomani della morte in Iraq del suo unico figlio, marine anche lui, Larry chiede ai suoi due vecchi compagni di accompagnarlo ad attendere il feretro per poi seppellirlo ad Arlington, con gli onori del caso, nel cimitero militare riservato agli eroi nazionali in Virginia.

Film dopo film, Richard Linklater (qui alla diciannovesima regia di un lungometraggio) dimostra di aver raggiunto una tale maturità artistica che lo porta a spaziare con disinvoltura non solo attraverso i "generi", ma attraverso le sempre più sfumate coordinate emotive di storie e personaggi capaci di rimanere impressi nella memoria.

 

Questa volta il regista di Boyhood prende spunto dal romanzo omonimo di Darryl Ponicsan (anche co-sceneggiatore del film e già autore, nel '70, di The Last Detail, portato poi al cinema da Hal Ashby, era L'ultima corvè in Italia) e mette in scena questa suggestiva reunion "on the road" supportato dalle tre, incredibili performance dei suoi protagonisti.

Il compassato, sempre ottimo, Steve Carell, si trova così in mezzo alla carica straordinaria di un Bryan Cranston barista alcolizzato mattatore e mai sottomesso all'autorità né alle menzogne e alla "trasformazione" spirituale di un Laurence Fishburne dapprima (almeno così raccontano) impenitente donnaiolo e viveur, ora pastore di una piccola chiesa e devoto marito, con gamba sbilenca al seguito.

E' seguendo il filo di un'esistenza condizionata irrimediabilmente da un passato difficile da seppellire e, allo stesso tempo, caratterizzata da un presente in cui - ancora una volta - risulta arduo comprendere cosa spinga le giovani generazioni a "servire" il proprio paese in contesti oggettivamente inspiegabili, che Last Flag Flying prova ad insinuarsi, portando in superficie il carico di un'umanità imperfetta ma debordante, dove ironia e sarcasmo abbracciano il dolore più profondo. E dove al posto di una storia "bella" da farsi raccontare è preferibile accettare la banalità di una fine forse meno "onorevole" ma reale.

Linklater, anche da questo punto di vista però, dimostra di sapersi svincolare da qualsiasi velleitarismo a tesi, e accompagnando i suoi tre personaggi sulla strada dell'espiazione sfugge al vincolo di una coerenza paludata de "la verità costi quel che costi", assecondando invece il ben più umano bisogno di "bugia a fin di bene".

Che cosa è davvero cambiato dai tempi degli errori/orrori del Vietnam ai giorni dell'occupazione in Iraq? A quanto sembra, ben poco. E l'ultima bandiera a sventolare, allora, è quella di un patriottismo dove i valori in gioco sono semplicemente quelli degli uomini. Non più quelli dello Stato e della politica.