Parigi, oggi. Tra un battibecco e l’altro con i genitori, pieni d’affetto ma ficcanaso e assillanti, tre fratelli di mezza età affrontano crisi esistenziali e problemi di cuore.

Antoine, ex-professore, dubita del rapporto con il compagno Adar e si confida con la migliore amica Ariel; Louis, manager di successo e in procinto di sposarsi, si innamora di un’altra donna mentre l’ultimo, Gérard, non riesce a rassegnarsi alla separazione dalla moglie. In che modo è possibile mediare tra l’aspirazione a una felicità apparentemente irraggiungibile, gli autoinganni e il rispetto dovuto ai sentimenti altrui?

Adattando un romanzo di Stephen McCauley, con L’arte della fuga (uscito in patria nel 2015) il regista francese Brice Cauvin ha realizzato un’opera densa di richiami rohmeriani e alla trilogia dei colori di Kieślowski (emozionante il cameo muto di Irène Jacob).

Così come le fughe bachiane, il film è un racconto polifonico di garbata sobrietà che tenta e vince la sempre difficile scommessa delle opere corali.

Il tratteggio dei personaggi è convincente anche grazie all’affiatamento del cast in cui spiccano Laurent Lafitte nel ruolo di Antoine e Agnès Jaoui (Ariel), donna e attrice di una simpatia innata.

 

Pieno di accenti sinceri e di un umorismo mai sopra le righe, infine, L’arte della fuga procede così verso l’inevitabile scioglimento senza brusche virate, senza ricatti emotivi, nel ritmo dimesso e a volte imprevedibile del fluire di ogni giorno.