Se un poeta è "uno che si danna perché quello che lo fa palpitare faccia palpitare anche gli altri", allora l'autore di questo pensiero, Roberto Benigni, è un vero poeta: 1) perché il suo nuovo film La tigre e la neve fa già palpitare molti, sulle note dell'amour fou, unica arma capace di contrapporsi alle guerre di ogni tipo; 2) perché molto dovrà dannarsi ancora il regista toscano per disarmare coloro che in una pellicola poetica e commovente vanno a ricercare la precisione chirurgica del prodotto filmico politicamente o stilisticamente corretto o, ancora peggio, gli stilemi delle merci mediatiche di successo. Percorso narrativo non lontano dai sentieri de La vita è bella. Prima parte sognante e fiabesca, seconda parte che si immerge nell'assurda guerra irachena. Attilio, il protagonista, è insegnante e poeta. Ipnotizza con il fuoco della fantasia frotte di allievi, seduce figlie e pipistrelli con rime baciate, insegue tenacemente la donna che ama, Nicoletta Braschi, che sembra però immune al fascino romantico di chi, per dirla ancora con Benigni, "ha i temporali in tasca o sa dar del tu all'ignoto". Nel sogno ricorrente di Attilio, un matrimonio dietro le mura romane: scrittori e poeti tra gli invitati, un vigile pronto a far la multa allo sposo in mutande e maglietta; la sposa che, oniricamente, si trasforma in bestia. Nella realtà invece, la donna, che doveva scrivere la biografia di un poeta iracheno, rimane gravemente ferita, è ricoverata in un ospedale di Bagdad. Per correre da lei, il poeta-Benigni spezza tutti gli schemi introiettati dai diluvi televisivi di questi tempi. Senza quasi accorgersi del conflitto in atto, anzi quasi sfiorandolo, sopravanza in velocità la Croce Rossa, raggiunge in autobus la capitale martoriata, supera indenne campi minati e check-point americani (l'arroganza yankee ammansita dalla follia di un poeta), usa tutta l'italica arte di trovare una soluzione, per riportare alla vita la sua donna. E infine, disperato, prega, come gli suggerisce il medico iracheno. Un Padre Nostro, ma recitato sempre più in fretta, perché c'è da proteggere la donna dagli insetti, usando l'unica arma di distruzione di massa che trova: uno scacciamosche. La comicità stempera ma non annulla il concetto religioso di espiazione, per venire a capo di peccati che abbiamo commesso o no, ma nei quali siamo immersi fino al collo. Nel finale, a sorpresa ma non troppo, Benigni non ignora la tragedia, incarnata nel poeta iracheno, ma lascia spazio anche alla speranza. E certo, ora dovrà dannarsi parecchio per convincere i suoi detrattori che non sta giocando a fare Charlot. Ma che semplicemente è anche lui un omino pieno di poesia. Costretto come lo fu Chaplin ad affrontare, e per questo andrebbe forse perdonata qualche licenza poetica o cinematografica, tempi difficili.