Amos Gitai è uno dei registi più contesi dai festival. Non passa anno che un suo film non si affacci alla ribalta di Cannes o Venezia, contendendo il primato di autore formato concorso a De Oliveira, che però lo batte in fatto di presenze in virtù degli anni. Al Lido nel 2003 con il toccante Alila, Gitai è ora a caccia di quel Leone che gli è sempre sfuggito con un film che affronta il tema scottante della prostituzione, fenomeno inquietante che vede palestinesi e israeliani muoversi in armonia al soldo della mafia russa. L'accordo di pace tra i due popoli, auspicato da più parti e ogni volta rimandato, si compie nel nome di uno sfruttamento tra i più bassi e vergognosi che si possa immaginare. Le ragazze russe, irretite con il sogno di un lavoro che promette soldi facili, raggiungono Israele attraverso la frontiera egiziana, bucando il controllo di guardie compiacenti. Nel deserto battuto dal vento comincia l'odissea di queste senza terra, sbattute da una città all'altra, passando da mani palestinesi a mani israeliani senza che nulla cambi la loro condizione di schiave. Creature in cerca di un luogo sicuro nelle quali sarebbe sin troppo facile e riduttivo riconoscere la metafora di un popolo che errante lo è per definizione. Gitai, israeliano possessore di uno sguardo sufficientemente oggettivo, racconta di una terra divisa dagli odi , unita nella gestione del dolore. Lo fa con un linguaggio aspro, esasperato da una macchina costantemente in movimento e al contempo fissa sui corpi a catturarne la disperazione. Il disagio delle donne sfruttate diventa così il nostro, fino a un finale per alcune di speranza, che è però la parte meno riuscita del film. Murate dentro un palazzo di Haifa, guardate a vista, le ragazze trovano una via di uscita grazie all'esplosione causata da un attentato che apre un varco nei muri. Alcune muoiono, altre sono trattenute dai carcerieri, altre ancora scappano verso la libertà nella notte lacerata dal suono delle ambulanze. La vita grazie a un gesto che vorrebbe seminare esclusivamente morte. Suggestiva quanto drammatica soluzione che arriva però troppo all'improvviso e ha il sapore di un espediente. Gitai ha sentito l'urgenza di gridare come la realtà terroristica non scelga chi colpire, irrompendo allo stesso modo nelle vite di vittime e carnefici, ma si tratta purtroppo di una scelta che in qualche modo spezza l'essenziale rigore di un film fin opportunamente qui concentrato sulle emozioni delle persone anziché sugli eventi sulla realtà politica del paese.