Eastern Promises - titolo originale di La promessa dell'assassino - di David Cronenberg è un'opera a struttura generativa. Articolata su due livelli: uno strato superficiale dove si deposita l'intreccio, agiscono i personaggi, si rispettano - talvolta in maniera sfacciatamente pedissequa - i codici del gangster-movie americano. E uno più profondo che ne costituisce il cuore pulsante, l'istanza primaria da cui il regista de La mosca muove e fa ritorno lungo il percorso del film: sotterraneamente, retroattivamente ad esso. Non sono pochi i momenti in cui la compatta intelaiatura di genere si squarcia improvvisa sotto la spinta del magma autoriale, con faide e malaffari della mafia russa travolte da scelte estetiche ed enunciative che ci restituiscono del regista canadese la poetica più autentica, rappresa attorno ai temi della metamorfosi identitaria, l'ossessione per il corpo, la putrescenza della carne. Altrimenti perchè indugiare sui dettagli raccapriccianti, brutalizzare la rappresentazione, dilatare i tempi d'esposizione alla violenza quando uno stacco in più non avrebbe pregiudicato la sostanza del discorso? Marche stilistiche che incidono la materia narrativa, come farebbe un chirurgo sul corpo sano di un paziente: gratuitamente e con dolo. L'intenzione è colpire lo spettatore alle viscere, restituirgli tutta la sofferenza e la finitezza dell'essere mortali, fatti di carne. Si veda a riprova la terribile scena della sauna. O si osservi come inserendosi nella fortunata tradizione dei mafia-movie Cronenberg rifugga da ogni interesse antropologico e dalla volontà di restituirne un ritratto veritiero per rifarsi ai più scontati clichè, luoghi svuotati che il cineasta si diverte a infettare dei suoi eccessi di sguardo. Un'intenzione che si replica anche a livello formale, dove gli shock visivi fanno saltare l'impeccabile confezione mainstream.
Non si può dunque parlare di delusione riguardo all'ultimo Cronenberg, piuttosto di travisamento per quanti si aspettavano un'operazione alla Scorsese servita in salsa russa. Il difetto semmai è di costruzione. Assumere come punto di vista quello di un'ostetrica londinese con desideri di maternità (l'incolpevole Naomi Watts) equivale a sminuire la natura mortifera della vicenda facendo posto a questioni sentimentali posticcie. Significa piegare la cupa metafisica del milieu a soluzioni meccanicistiche e consolatorie. Costringe infine l'attenzione dello spettatore a divagare inutilmente su troppe piste, quando sarebbe bastato fare del personaggio di Viggo Mortensen (immobile eppure intenso) l'unico punto nevralgico della diegesi. Il film ne avrebbe guadagnato in ritmo, tenuta e coerenza.