La notte del solstizio d’inverno, la più lunga dell’anno, a Potenza. C’è il contesto, quindici ore di buio nel cuore nero della provincia meridionale, e ci sono i suoi abitanti, un malinconico bestiario fatto di anime spaesate che non riescono a essere all’altezza dei propri sogni.

Personaggi in ballo: un politico prossimo all’arresto che cerca disperatamente di salvarsi; una cubista non più giovanissima sfinita con padre malato; un ragazzo in fuga dalla casa della matura amante; tre giovani sbalestrati che vogliono andare in discoteca a bordo di un carro funebre. Trait d’union, un benzinaio in servizio.

Non mancano le ambizioni a Simone Aleandri, esordiente nella finzione dopo una decennale esperienza nel documentario, e La notte più lunga dell’anno si nutre di riferimenti soprattutto americani, forse perché di fronte a narrazioni corali a forte voltaggio allegorico tendiamo a pensare al venerato maestro Robert Altman e a certi exploit del suo devoto allievo Paul Thomas Anderson.

È facile vederla come la configurazione di una “notte d’Italia”, tant’è che ogni storia si porta dietro l’immagine anzi il fardello di una ferita collettiva che si riverbera nel personale: la corruzione del potere, il conflitto generazionale, i matrimoni infelici, i giovani abbandonati al loro destino. In generale Aleandri traccia l’affresco di una umanità in decomposizione, consumata dalle proprie ambizioni frustrate e in fuga dallo spettro di altri fallimenti.

A illuminare l’oscurità dei piccoli o grandi drammi privati, le luci dei locali, siano quelle mutanti nel ristorante dell’ultima cena del politico, quelle acide dei dancing o quelle che rifulgono dalle fiamme degli incendi inattesi. O quella che rifulge dagli occhi tormentati e dagli spiragli dei vestiti della cubista Luce (ohibò! – ma Ambra Angiolini si conferma attrice ricca di sfumature).

Presentato in concorso all’ultimo Torino Film Festival, La notte più lunga dell’anno si diletta nell’esibizione di una regia di forti risonanze visive quasi simile a uno sfoggio muscolare, ma non sembra reggerne i contraccolpi estetizzanti, né sembra avere un respiro tanto largo da contenere la tensione morale di un grande racconto allegorico dove si scontrano destino e immobilismo, paura e desiderio.

Funziona il pur facile contrappunto dato dai programmi della televisione popolare, che funge da sottofondo persistente e facile parafrasi del degrado, così come intriga il tessuto sonoro che mette in campo gli Eiffel 65, Umberto Tozzi, il fischio del benzinaio Mimmo Mignemi. Sono segnali di vita lanciati da un film interessante quanto fraglie, imprigionato nello schema della sua ambizione.