Un piede nero, una cancrena che parte da un punto e si estende alle interiora. Una metafora del potere che Albert Serra rende forte ed evidente in La mort de Louis XIV, film fuori concorso a Cannes in occasione della Palma d’onore al protagonista Jean-Pierre Leaud e prosecuzione del discorso intrapreso dal regista catalano con Historia de la meva mort.

Come intuibile dal titolo, il film segue gli ultimi giorni di vita di re Sole, il suo lento spegnersi e i suoi ultimi sussulti di vita, ma soprattutto attorno al suo corpo marcescente mette in scena la corte, i discorsi, il rapporto con vita e morte, potere e pensiero. Scritto dal regista con Thierry Loukas, La mort de Louis XIV è il necrologio di La presa del potere da parte di Luigi XIV di Rossellini, una sorta di negativo anche stilistico che riflette sul rapporto tra morte del corpo e immortalità politica.

Serra, cineasta tra i più complessi e affascinanti dell’Europa contemporanea, si confronta con capitali importanti (co-produce la tv francese) e sembra voler scegliere uno stile più composto e limpido del solito, che porti le decadenti influenze di Sokurov e Ruiz all’umanesimo trasparente di De Oliveira; ma con i minuti e il procedere della putrefazione in vita di re Luigi (un immenso Leaud, che mette in scena sé stesso e il proprio vissuto con forza e coraggio), Serra svela il suo tocco grottesco per mettere alla berlina tutta un’epoca, o meglio tutta la storia che si ripete incancrenita nei rituali di governo, delle ragioni di stato, dell’ostinazione a tenere in vita mummie istituzionali.

Dove sorprende il film, più che nel ritmo ipnotico o nell’ironia paradossale con cui si chiude, guardando in camera, è nei sussulti di pietà che trasmette, nella ricerca vana di pace di un corpo durante e dopo l’ultimo respiro, nella consapevolezza umana che ogni uomo - che abbia raggiunto il sole o solo il sottosuolo - è solo un uomo. E come tale va compreso e guardato. Mica facile in tempi in cui ogni cosa deve sottintendere una scelta di campo.