La depressione è una brutta malattia. Non solo per chi ne soffre, ma anche per chi sta accanto alla persona affetta dal male di vivere. È questo il caso di Silvia (Lisa Ruth Andreozzi), una bambina di undici anni, che si ritrova una mamma (Donatella Finocchiaro) che non ce la fa ad alzarsi dal letto e che passa la sua giornata a dormicchiare al buio.

Sentendosi inascoltata e incompresa la ragazzina sceglierà di scappare da una situazione familiare complessa, alla quale contribuisce anche un padre (Filippo Nigro) piuttosto silenzioso e nervoso, e di andare a visitare Roma. Nel corso del viaggio in treno da Pistoia alla città eterna incontrerà una ragazza rom di nome Emina (Emina Amatovic) con la quale subito instaurerà un forte legame di amicizia.

L’opera prima della regista Sandra Vannucchi si ispira alla sua esperienza personale (sua madre ha sofferto di depressione) e tenta di esplorare il modo in cui una bambina reagisce di fronte alla sofferenza profonda di una persona amata. L’intento è quello di mostrare le emozioni di una giovane che soffre per la mancanza di affetto, per quel muro che ci si trova di fronte quando una madre soffre di depressione cronica. Allo stesso tempo la regista ci mostra una Roma vista dalla prospettiva dei rom da Piazza Navona alle strade di periferia abbandonate.

Insomma La fuga è una sorta di romanzo di formazione che in qualche modo ricorda un film uscito due anni fa che si intitolava Una gita a Roma di Karin Proia, nel quale due bambini scappavano da Latina e iniziavano una traversata della città con destinazione Musei Vaticani e un viaggio durante il quale i due cercavano di ricordare agli adulti ciò che era importante aiutandoli a ristabilire le priorità.

Qui la giovane protagonista e il resto degli attori non professionisti provenienti dal campo nomadi romano però non spiccano nella recitazione e anche la Finocchiaro e Nigro in questo film non danno il meglio.

In più il tema della depressione e della cultura rom con relativo sottotesto di un’auspicata apertura verso tutte le persone “diverse” e sradicate dai loro paesi non sono affrontati con la dovuta profondità del caso e tutto il discorso rimane in superficie.