Ecologista duro e puro, Michele Grassadonia (Luigi Lo Cascio) ha lasciato Palermo per Siena, la sua città ideale. Architetto, nel suo appartamento da più di un anno vive da eco-autarchico, senza far ricorso all'acqua corrente o all'energia elettrica. Fin qui tutto bene, anche se la paranoia affiora, ma in una notte di pioggia Michele ha un incidente automobilistico, anzi, più d'uno, dai contorni misteriosi e dalle venature progressivamente thriller.
Esordio alla regia di Luigi Lo Cascio, La città ideale è l'unico italiano della Settimana della Critica veneziana. Soggetto e sceneggiatura - con la collaborazione di Massimo Gaudioso, Desideria Rayner e Virginia Borgi - dello stesso attore e regista, che fondamentalmente si chiede due questioni: esiste la verità e, se sì, si può ricercare e soprattutto esprimere irrefutabilmente? Domande da aula giudiziaria, e infatti all'orizzonte è un processo kafkiano, con avvocati sopra le righe, cavalli per prova, mamma per coach veridittivo e il limine tra realtà e immaginazione, soggettività e oggettività, verità - ancora - e finzione continuamente valicato.
Avanti e indietro, e così si muove il film, con sterminate contaminazioni e ispirazioni: da Borges a  Kafka, da Polanski a Sciascia, da quel che volete a quel che vi pare. Insomma, la novità non abita qui, ma non necessariamente è un cruccio.
Viceversa, La città ideale si fonda sulla palese ambizione, se non presunzione tout court, di Lo Cascio, che costruisce un'architettura drammaturgica interessante, ma anche involuta, densa di onirismi, metafore e - ahinoi - pure spiegazioni di quegli onirismi e metafore. Insomma, spazio per lo spettatore ce n'è poco, e comunque gli si dice tutto, troppo, dall'alto di una intelligenza creativa che marchia ogni inquadratura, ogni movimento di macchina.
Egocentrismo o insicurezza? Tutti e due, ma quel che non ci aspetteremmo è la malleabilità atmosferica, la permeabilità emotiva del film, ovvero del suo registro, alla comparsa di questo o quel caratterista, su tutti l'avvocato Luigi Maria Burruano: l'attore divenuto regista si fa scippare dal collega il mood della Città, che nel caso di Burruano piega sensibilmente verso il comico-grottesco. Con la smania di comando e controllo di Lo Cascio altrove così evidente, non è pecca di poco conto. Infine, progressivamente la natura di fanatico eco-guerriero di Michele rivela una fastidiosa superficialità ideologica e disutilità drammaturgica, mentre addirittura incomprensibile è la presenza di un'artista bella, cavallona e bobo (Catrinel Marlon) che ritrae le aggressioni del mondo animale (ennesima metafora, con tanto di animazioni strappate dai quadri). Dunque, buona la prima? Ni.